«Per quanto i cristiani possano sentirsi a casa loro in Medio Oriente e vivere più o meno bene la propria fede, crescono il sentimento di precarietà, le classificazioni a seconda della fede e gli interrogativi di fronte alle manifestazioni violente del fondamentalismo islamico radicale, che provoca sofferenza anche per numerosi concittadini musulmani. Gli interventi militari in Afghanistan e in Iraq hanno reso più incerta che mai la possibilità di “vivere insieme”, e le difficoltà del processo di pace fra israeliani e palestinesi pesano ulte rior mente su questa situazione».
È il quadro della vita dei cristiani in Medio Oriente nell’era post-11 settembre nello sguardo di padre Maurice Borrmans, dei Missionari d’Africa (Padri Bianchi), tra i massimi arabisti e islamologi contemporanei (è stato per anni docente al Pontificio istituto di studi arabi e islamistica di Roma e direttore della rivista I slamochristiana). «Non è uno scontro di civiltà ma piuttosto uno scontro d’ignoranza e inciviltà quello di cui soffriamo: e tanto più siamo ignoranti, tanto più rischiamo di generalizzare e di proiettare sull’altro una falsa rappresentazione dei suoi valori», avverte lo studioso.
Alto e sottile nel clergyman antracite, 80 anni splendidamente portati, padre Borrmans ha lasciato per un paio di giorni il suo buen retiro a Lione per intervenire alla sessione plenaria del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti dedicata nel maggio scorso agli immigrati «da e verso i Paesi islamici». E per esortare la Santa Sede a sostenere «quei governanti musulmani illuminati, riformisti o modernisti, che vogliono testimoniare un islam capace di democrazia e umanesimo pur essendo contestati da autorità religiose e politiche in nome di un islam ideale che sarebbe, secondo loro, occultato».
Padre Borrmans, quali scenari intravede nel futuro dei rapporti tra mondo arabo e Occidente?
L’islam non è un blocco monolitico, ogni Paese è un caso a sé. Bisogna rallegrarsi nel vedere alcuni governi di Stati musulmani allacciare relazioni diplomatiche con la Santa Sede, essere più attenti a garantire i diritti dell’uomo e affermare una volontà di dialogo interculturale e interreligioso nel quadro di un pluralismo che pretende di essere democratico, cioè laico. Dobbiamo però lamentare altrove varie restrizioni nell’applicazione dei diritti umani, il fatto che programmi e libri scolastici presumano spesso che tutti gli studenti siano musulmani, e che la disparità di religione impedisca quasi ovunque il matrimonio di una musulmana con un non-musulmano. La libertà di cambiare religione, poi, è ancora troppo spesso rifiutata come contraria alle regole della sharia.
Il mancato processo di pace in Terra Santa è considerato «la madre di tutte le guerre». È davvero così?
L’opinione pubblica musulmana ha sempre considerato la creazione dello Stato d’Israele come una mossa politica dell’Occidente cristiano, oltre che un’ingiustizia commessa ai danni del popolo palestinese. Ora per fortuna molti palestinesi hanno capito che bisogna accettare dei compromessi e integrare lo Stato israeliano nel contesto politico del Medio Oriente, e vederlo in modo positivo. Ma poiché il conflitto ha creato uno stallo in tutti gli ambiti dei rapporti interculturali e interreligiosi del Medio Oriente, finché rimarrà irrisolto ci sarà sempre questa spina fra mondo arabo musulmano e mondo occidentale.
Fino a che punto i leader di alcuni Paesi arabi, come la Siria o l’Iran, hanno strumentalizzato la questione palestinese?
Non nascondo che anche questo punto di vista ha il suo valore. Strumentalizzate dai loro governanti, le opinioni pubbliche di quei Paesi tendono spesso a far ricadere le responsabilità dei guai nazionali o regionali sulle spalle degli «altri». Perchè manca l’autocritica! E tutti i capi musulmani illuminati lo ammettono: non hanno il coraggio dell’autocritica… Come si possono cambiare le cose? Dialogando, spiegando, e aiutando ad educare le nuove generazioni a non generalizzare e ad esercitare l’autocritica a livello personale, comunitario, nazionale.
Nel testamento spirituale lasciato prima di pagare con la vita, il 2 giugno 2005, il suo impegno civile, l’intellettuale libanese Samir Kassir indicava nel difficile rapporto con la modernità una delle cause dell’«infelicità araba»…
Ma non vale forse lo stesso anche per le civiltà europee? L’Europa con le sue democrazie non ha ancora trovato il criterio di una società perfetta, giusta ed equa. Il rapporto tra religione, cultura, ordinamento civile delle società è un problema che riguarda sia l’Occidente che il mondo arabo. Ma è anche vero che la modernità fatta di progresso tecnologico, di affermazione dell’individualismo e della razionalità, dell’idea – vera o falsa – di un progresso continuo, nasce nel cosiddetto Occidente di tradizione cristiana. Ma non si limita ad esso. Bisognerà riconoscere che la modernità non è un fatto specifico dell’Occidente, perché la stanno vivendo anche i giapponesi, i cinesi e gli indiani.
Anche chi, come lo studioso americano Bernard Lewis, riconosce lo splendore della civiltà araba tra l’VIII ed il X secolo, si chiede però cosa sia andato storto in Medio Oriente.
Io non penso che qualcosa sia andato storto ma piuttosto che c’è un’arretratezza nel tempo. Forse gli arabi musulmani non hanno saputo nel corso degli ultimi secoli aggiornare le loro competenze scientifiche, intellettuali, mistiche. In ogni caso le società non possono avere un’evoluzione affrettata. Molti dei Paesi musulmani hanno conosciuto uno sviluppo demografico formidabile: problemi immensi come quelli dell’economia, della scolarizzazione, dell’occupazione… Questioni che esigerebbero miracoli che non si possono realizzare in poco tempo. Persino il concetto di nazione è recente. Basti pensare all’Iraq composto da sciiti, sunniti, curdi: come realizzare una società unitaria con tanti elementi che non hanno ancora avuto il tempo di sincronizzare le loro evoluzioni storiche?
Resta però il «deficit democratico» dei Paesi del Magreb e del Medio Oriente, ed i rischi di derive fondamentaliste.
È naturale che oggi davanti ai pericoli del radicalismo, di un estremismo musulmano che talvolta si rivela tendenzialmente violento, i governi tendano ad essere dispoticamente duri con le loro popolazioni, con le loro opinioni pubbliche e le libertà democratiche. Per ridurre l’influenza degli estremisti religiosi, rifiutano ogni forma di espressione che potrebbe invece dare nuovo slancio alla cultura nazionale o panaraba. Poiché fin dai primi secoli dell’islam ci sono state varie correnti mistiche che hanno rifiutato l’uso della violenza, penso che oggi dovremmo aiutare molti intellettuali a ripensare questa possibilità.
Episodi di cristianofobia in Iraq, Egitto, Pakistan, Terra Santa rendono il quadro quanto mai cupo. Che ne pensa?
Le minoranze rischiano di diventare «capri espiatori» in seguito a facili generalizzazioni e alle amalgama semplicistiche che ridanno vita a vecchi pregiudizi e a sogni di crociate o di jihâd. La convivenza fra cittadini all’interno di una società rischia di essere difficile perché la divisione a seconda dell’appartenenza religiosa diventa un parametro fondamentale della società civile, e cresce l’emarginazione dei non musulmani. Per fortuna in molti Paesi dell’Africa nera e in alcuni Paesi arabi non è così.
L’Arabia Saudita si presenta come uno Stato modello. Non vede un pericolo in questo atteggiamento?
Ogni anno un miliardo di musulmani con la tivù si reca virtualmente in pellegrinaggio alla Mecca o a Medina, pur vivendo a Jakarta o ad Algeri. Vedono come si vive in Arabia Saudita e pensano che si debba fare lo stesso a casa loro… Il rischio è di tornare a questo contesto medioevale in nome di un ideale ritrovato, in nome di un islam essenzialista che non dovrebbe cambiare a seconda dei contesti storici e culturali: questo pare sia l’insegnamento di molti responsabili religiosi e politici che rifiutano i modelli di sviluppo moderno dell’Occidente o dell’Estremo Oriente.
Uno sguardo rivolto al passato più che al futuro della civiltà araba…
Il problema è che la modernità, con il suo carattere occidentale, nel subconscio collettivo dei popoli musulmani è ancora concepita come una modernità da miscredenti. Non ci si rende conto che ciò che si vede è semmai una maschera e non il vero volto.
È ottimista?
C’è il rischio di essere pessimisti davanti alle difficoltà dell’oggi. Però direi che per fortuna esiste ancora dappertutto anche una saggezza popolare che andrebbe sostenuta per superare conflitti attuali e malintesi. Mi auguro che da entrambe le parti si moltiplichino le possibilità di educare nelle scuole e con i media le opinioni pubbliche, in modo che la gente sia più consapevole del pluralismo reale delle nostre società, del perché fondamentale di queste esigenze di modernità, che vanno nel senso di un progresso umano, di una felicità superiore.
Quello della rappresentazione di se stessi è un problema cruciale anche in Occidente.
Certo. Quale immagine diamo noi della nostra civiltà? Me lo dica lei. L’arabo dell’Arabia Saudita, o l’algerino che vede le nostre trasmissioni televisive, può onestamente scoprire tutti i valori profondi della nostra cultura? Credo onestamente di no. L’immagine che diamo di noi non è rappresentativa della realtà profonda dei nostri valori. Dall’altra parte, sul versante musulmano, potremmo dire più o meno lo stesso: ci accontentiamo di una maschera. Come superare questa visione parziale? Come imparare a guardare in profondità, nel cuore dell’altro? È un esercizio difficile, ma non dobbiamo demordere.