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La svolta di settembre: unità nazionale per i palestinesi

16/09/2006  |  Milano
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La svolta di settembre: unità nazionale per i palestinesi
Da sinistra, il primo ministro palestinese Ismail Haniyeh e il presidente Mahmoud Abbas (meglio noto come Abu Mazen).

Dopo nove giorni di scioperi che, a inizio settembre, hanno paralizzato l'Autorità nazionale palestinese (incrociavano le braccia insegnanti, medici e impiegati, senza stipendio da sei mesi), la situazione nei Territori palestinesi sembra poter migliorare. Il raggio di sole è arrivato con l'annuncio dell'imminente formazione di un governo di unità nazionale, a cui contribuiranno anche esponenti di al Fatah. È un evento importante, che potrebbe sbloccare la crisi palestinese determinatasi con la vittoria elettorale di Hamas nel gennaio scorso. Alla base della svolta il Documento della concordia nazionale, diffuso in maggio da alcuni leader palestinesi detenuti nelle carceri di Israele.


Dopo nove giorni di scioperi che, a inizio settembre, hanno paralizzato l’Autorità nazionale palestinese (incrociavano le braccia insegnanti, medici e impiegati, senza stipendio da sei mesi), la situazione nei Territori palestinesi sembra poter migliorare.

Il raggio di sole è arrivato con l’accordo, annunciato l’11 settembre, tra le due fazioni politiche di Hamas e Fatah, che hanno siglato un’intesa per formare un governo di unità nazionale. Lo si attendeva nel giro di un paio di giorni e invece le ore passano invano. Comunque, presto il presidente Abu Mazen potrebbe sciogliere l’attuale governo e affidare nuovamente l’incarico a Ismail Haniyeh, attuale premier, che provvederà a nominare un esecutivo comprendente anche personalità del Fatah e indipendenti.

L’accordo tra Hamas e Fatah è un evento importante, perché dovrebbe aprire la porta a un pur implicito riconoscimento dello Stato d’Israele da parte degli islamisti di Hamas. La via d’uscita era indicata dal Documento dei detenuti, redatto in maggio da alcuni leader palestinesi incarcerati in Israele (anche se il riferimento offerto da Haniyeh è piuttosto quello dell’iniziativa della Lega araba del 2002).

Il governo di unità nazionale dovrebbe poter mettere fine alla situazione di «guerra civile» che si era venuta a creare nei territori tra sostenitori di Hamas e del Fatah. Vorrebbe inoltre convincere il governo israeliano a riaprire i contatti con Ramallah, ma soprattutto mira a convincere l’Occidente e l’Europa in prima battuta a scongelare i fondi che permettevano all’Anp di sopravvivere e di pagare gli stipendi a 160 mila dipendenti pubblici.

Nel numero di luglio-agosto della rivista Terrasanta ci siamo occupati dello stallo tra Hamas e Fatah, dell’idea di Abu Mazen di indire un referendum (poi rientrato) e del cosiddetto Documento dei detenuti. Riproponiamo, di seguito, quell’articolo a firma Giampiero Sandionigi.


Il Documento dei detenuti
e il rischio della guerra civile

Un passo indietro che non può piacere a Israele. A prescindere da quelli che sarebbero stati gli sviluppi futuri, nel 1993 Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e indiscusso leader del suo popolo, metteva nero su bianco il riconoscimento dello Stato di Israele e la rinuncia all’uso del terrorismo e della violenza per cancellarlo dal Medio Oriente.

Oggi il Documento della concordia nazionale palestinese – partorito nel maggio scorso, dentro le carceri israeliane, da alcuni dei detenuti palestinesi più in vista – quel riconoscimento lo lascia tra le righe, non lo riafferma, forse lo rinnega.

Gli ottimisti lo rinvengono tuttora tra le pieghe del testo, laddove il primo dei 18 punti recita: «Il popolo palestinese, in patria e nella diaspora, si batte per liberare la sua terra e realizzare il suo diritto alla libertà, al ritorno, all’indipendenza, all’autodeterminazione, ivi compreso il diritto di creare uno Stato indipendente con capitale Gerusalemme su tutti i territori occupati nel 1967». L’accenno finale, secondo molti analisti, andrebbe letto come una presa d’atto che sul resto del territorio esiste un’altra entità statuale – Israele – dalla cui esistenza non si può prescindere. Non è molto.

Ciò detto, il Documento dei detenuti ha una sua importanza tanto sul versante della politica interna palestinese quanto sulle ovvie conseguenze nelle relazioni tra i palestinesi e il resto del mondo.

Il primo elemento di rilievo sta nelle cinque firme in calce al manifesto politico, quelle di esponenti di rprimo piano delle principali correnti politiche e combattenti: Marwan Barghouti, del Movimento di liberazione nazionale palestinese (Fatah); Abed al Khaleq Alnatsha, del Movimento di resistenza islamica (Hamas); Bassam Al Saadi, del Movimento Jihad islamico; Abed Alrahim Maluh, membro del comitato esecutivo e vice segretario generale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp); Mustafah Badarne, del Fronte democratico per la liberazione della Palestina (Fdlp).

La piattaforma politica è stata sottoscritta l’11 maggio e nel giro di pochi giorni ha richiamato grande attenzione. Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (meglio noto come Abu Mazen), se ne è subito impossessato per utilizzarla come un’arma nella lotta intestina che lo contrappone al governo di Hamas. Forte del fatto che tra i firmatari c’è anche un esponente dello stesso movimento, il presidente ha chiesto agli altri leader di Hamas di confermare la loro piena adesione al testo. Non avendola ottenuta ha deciso di sparigliare le carte e sottoporre il manifesto politico al responso popolare con un referendum – di dubbia legittimità – convocato con decreto presidenziale per il 26 luglio. Gli eventi di Gaza, con il rapimento il 25 giugno di un soldato israeliano e la successiva invasione dell’esercito israeliano nella Striscia hanno imposto altre priorità, ma il Documento dei detenuti resta sul tavolo del confronto politico infrapalestinese e forse può davvero essere una carta essenziale per scongiurare la disgregazione interna, o addirittura la guerra civile e persino la nascita di due entità palestinesi: un «Hamastan» cioè un territorio sotto la sovranità di Hamas nella Striscia di Gaza e un «Fatahland», nelle mani del movimento che fu di Arafat, in Cisgiordania.

Sono incubi che tolgono il sonno a molti. Lo stesso Marwan Barghouti – condannato a cinque ergastoli dai tribunali israeliani che lo ritengono uno degli artefici della seconda Intifada, ma che allo stesso tempo è considerato un leader pragmatico e un possibile interlocutore – spiegando la genesi del Documento che anche lui ha sottoscritto, non ne ha fatto mistero: «È scaturito da un profondo senso di preoccupazione che la situazione finisca fuori controllo. L’idea era di concertare un documento che costituisse un comune denominatore per tutte le forze politiche; un lavoro difficile nel contesto palestinese perché la maggioranza di queste forze sono trincerate dietro i loro programmi e non sono abituate ad avere un programma comune».

Se il manifesto dei detenuti dovesse diventare davvero uno strumento di lavoro condiviso, una sorta road map della politica interna palestinese, l’Organizzazione della liberazione della Palestina, la cui anima fin qui è Fatah, tornerebbe a giocare il ruolo principe che Hamas le contesta, anzi diventerebbe il contenitore entro cui coordinare le spinte di tutti gli altri movimenti politici (Hamas e Jihad islamico inclusi). All’Olp e ai suoi leader, cioè oggi ad Abu Mazen, spetterebbe il monopolio della rappresentanza del popolo palestinese nelle sedi internazionali. Le fazioni politiche cesserebbero di scontrarsi armi in pugno. Verrebbe rafforzato quell’embrione di Stato sovrano che è l’Autorità nazionale palestinese e in particolare il suo sistema giudiziario e l’apparato di sicurezza. Forse, persino, si contrasterebbe efficacemente la diffusa corruzione.

Per come stanno oggi le cose sarebbe già un sogno.

Giampiero Sandionigi

 


 

Lavorare insieme per la concordia nazionale

Ecco alcuni passaggi salienti del Documento della concordia nazionale, un testo in 18 punti redatto dai leader palestinesi detenuti nelle carceri israeliane l’11 maggio scorso.

«Il popolo palestinese, in patria e nella diaspora, si sta adoperando per liberare la sua terra e realizzare il suo diritto alla libertà, al ritorno, all’indipendenza, all’autodeterminazione, alla creazione del suo stato indipendente con capitale Gerusalemme su tutti i territori occupati nel 1967». L’espressione implica, pur senza dirlo apertamente, che sul rimanente territorio della Palestina ante 1948 esista un altro Stato: Israele.

Nessun compromesso circa la garanzia del diritto al ritorno dei profughi – che sfollarono con l’avanzata di Israele – e all’erogazione di appropriati indennizzi.

L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) viene riaffermata come «l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese ovunque esso si trovi». In essa dovrebbero confluire anche Hamas e Jihad islamico. L’Olp, con il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), ha la prerogativa di condurre le trattative in nome e per conto dei palestinesi.

L’Anp va rafforzata in quanto nucleo del futuro Stato e tutti devono rispettare la Costituzione provvisoria. Bisogna inoltre legiferare per affermare lo Stato di diritto e rendere efficienti il potere giudiziario e le forze di sicurezza. I palestinesi non devono versare il sangue di altri palestinesi in nome di faide politiche interne. Va allontanato il rischio di una guerra civile e bisogna mettere fine alle manifestazioni armate e sequestrare le armi detenute illegalmente.

Altri imperativi: abituarsi al dialogo e al confronto pacifico. Puntare alla formazione di un governo di unità nazionale. Governo e presidenza devono cooperare, appianando tramite appositi incontri periodici. (g.s.)

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