Mentre i caschi blu italiani si stanno dispiegando in Libano sotto le bandiere dell’Unifil (l’acronimo sta per United Nations Interim Forces in Lebanon), c’è un’immagine che rimbalza nei tanti blog che i giovani libanesi gestiscono su Internet: una bandiera libanese reca, al posto dell’albero di cedro, una valigia.
La voglia di lasciare il Paese sembra si stia impadronendo di una larga fetta della popolazione (nuovamente, verrebbe da dire: il Libano già ha conosciuto, a più riprese, il fenomeno dell’emigrazione). Secondo un sondaggio pubblicato sul quotidiano L’Orient-Le Jour di Beirut, il 54 per cento dei cristiani, il 51 per cento dei musulmani sunniti e il 40 per cento degli sciiti pensa il proprio futuro fuori dal Libano.
Questa è oggi la realtà del Paese dei cedri: una nazione alle prese con un clima di sfiducia, quasi di rassegnazione, dopo l’euforia seguita alla «primavera di Beirut» e alla fine dell’occupazione militare siriana.
L’arrivo delle forze Onu è un passo importante per la stabilizzazione della regione. Ma non basta certo a risolvere i problemi. Men che meno può bastare il fiume di soldi che si sta riversando sul Libano e sull’Autorità nazionale palestinese da parte dei Paesi donatori convenuti a Stoccolma a fine agosto. La storia recente ha mostrato (vedi i fondi destinati dall’Occidente e dall’Unione europea all’Anp e alla ricostruzione del Libano negli anni Ottanta) che è inutile usare i soldi per gettare una cortina fumogena sui problemi. Che alla fine riemergono.
Solo un’azione forte, capace di portare le parti in causa al tavolo dei negoziati, e il coraggio di investire sulla realizzazione della pace (che significa in prima battuta rimuovere le ingiustizie e abbandonare le logiche di sopraffazione), potrà regalare al Medio Oriente una stagione nuova, nel segno della riconciliazione.