Il buio è sceso sulla Striscia di Gaza. Da tre mesi a questa parte, in seguito a un bombardamento aereo israeliano, l'unica centrale elettrica è fuori uso e dal tramonto all'alba gli abitanti vivono nell'oscurità pressoché totale. E devono fare a meno di elettrodomestici e altre apparecchiature ancora più necessarie, come quelle degli ospedali. Vi riproponiamo alcune testimonianze raccolte da Caritas Jerusalem.
Il buio è sceso sulla Striscia di Gaza. Non è solo un’immagine, per dire che l’attenzione dei media da qualche tempo si è rivolta altrove (in Afghanistan, in Iraq o in Libano): da tre mesi a questa parte, da quando un aereo da combattimento israeliano ha colpito l’unica centrale elettrica della zona, dal tramonto in poi gli abitanti vivono nell’oscurità pressoché totale. E devono fare a meno di tutto ciò che funziona con la corrente: non solo della televisione, o del computer, o del ventilatore per lenire la calda estate palestinese, ma anche delle pompe per disporre di acqua potabile o del frigorifero per conservare cibo fresco, o ancora delle attrezzature negli ospedali.
Il tutto mentre l’embargo continua a pesare sui confini della Striscia, che resta impenetrabile per persone e merci. Ogni tanto la coltre di tenebre, almeno dal punto di vista dell’informazione, viene perforata da qualche spiraglio: all’inizio dello scorso settembre, ad esempio, Gideon Levy ha firmato sul quotidiano progressista israeliano Haaretz un articolo particolarmente severo nei confronti del partito Kadima e il primo ministro Olmert, denunciando la situazione attuale di Gaza come «la peggiore di tutti i tempi» dal punto di vista umanitario.
Data invece 27 settembre un comunicato di Caritas Jerusalem che fissa l’attenzione specialmente sulle conseguenze dell’attacco alla centrale elettrica, viste con gli occhi della gente comune di Gaza. Il negoziante, lo studente, il medico e altre categorie poco affini al terrorismo combattuto da Israele narrano la loro nuova «normalità».
Dal canto suo Jamal Dardasawi, responsabile delle pubbliche relazioni della Compagnia elettrica di Gaza, spiega che la centrale messa fuori uso dalle bombe soddisfa solo la metà del fabbisogno di corrente nell’area. L’altra metà viene è prodotta in Israele e però viene fornita in modo discontinuo, così come il carburante necessario a far funzionare i gruppi elettrogeni dei privati e delle strutture pubbliche, in primis gli ospedali che si devono arrangiare in questo modo per mantenere operative le macchine e conservare le medicine.
Per il resto, stralci di vita quotidiana negata, alterata. Nelle parole del parroco di Gaza, padre Manuel Musallam, il dolore assume tratti banali e quasi fiabeschi: «Camminando di notte per le strade di Gaza – dice – si sentono i bambini piangere perché hanno paura del buio», ma i genitori non li possono consolare perché le case non hanno luce.
Non mancano, poi, le voci di chi è costretto all’inattività: il fiorista che cerca senza successo di vendere fiori di plastica perché non riesce a conservare le piante autentiche, il lavasecco costretto a giustificarsi di fronte ai clienti perché non ha potuto pulire i vestiti, l’universitario che non riesce a sostenere esami perché non può mettere una lampadina sopra il libro da studiare.
Uno studente osserva che «quando la luce è spenta, anche la vita è spenta». Lui stesso si consola in qualche modo cercando l’unico lato positivo della situazione: «Anche se questa vita non è normale ed è psicologicamente devastante, noi palestinesi cerchiamo ancora di divertirci. Con i miei amici o la famiglia mi siedo sotto la luna, in spiaggia o tra gli alberi, a parlare: le relazioni sociali non sono mai state migliori».