Dai maestri arabici ho appreso una cosa, a lasciarmi guidare dalla ragione, mentre tu sei abbacinato dall’aspetto dell’autorità e sei guidato da altre briglie (che non sono quelle della ragione). Infatti che cosa è di fatto l’autorità se non una briglia? E come gli animali bruti sono menati ovunque dalle briglie e non hanno idea di che cosa li guidi o perché, ma altro non fanno che seguire la corda che li tira, così l’autorità degli scriptores conduce non pochi di voi in pericolo, legati e vincolati da una credulità animalesca». Così scriveva Adelardo di Bath, nel XII secolo, opponendo la disinibita razionalità araba alla cieca obbedienza di alcuni colleghi… Proprio quella ragione, di cui il Papa ha recentemente parlato nel suo di scusso intervento a Ratisbona, dimorava allora di preferenza nelle opere orientali che in quelle occidentali.
I trattati medievali che mettevano a confronto tre ipotetici intelocutori: un ebreo, un cristiano e un filosofo, raffiguravano quest’ultimo come un sapiente musulmano. Sorprendentemente, a secoli di distanza, il mondo dell’islam non ci appare più in questa prospettiva, ma al contrario si presenta come terra di anatemi, scomuniche e censure. Sotto la sua minaccia si insinua persino tra di noi la tendenza all’autocensura presso scrittori, vignettisti, uomini di cinema e di teatro, più o meno volontariamente indotti ad evitare di stuzzicare l’altrui suscettibilità mostrandosi troppo disinvolti nel trattare di cose che altrove vengono considerate venerande, sacre ed intoccabili. Eppure, quando si esprimono a proposito di chi non appartiene alla loro fede, molti musulmani non si mostrano altrettanto riguardosi. Il Messaggero dell’Islam, rivista periodica di un centro islamico italiano, non ha esitato a definire il cristianesimo un «culto idolatrico», obiettando che «non è possibile avere in programma la distruzione degli idoli e dialogare con i loro adoratori (laici o religiosi che siano)» e concludendo che «solamente l’islam è la vera religione, mentre tutte le altre sono religioni artificiali fabbricate dai vicari di Satana per fuorviare gli uomini dalla pratica della religone autentica».
L’incontro di Assisi (di cui ricorre proprio quest’anno il ventennale) promosso da Giovanni Paolo II fu a suo tempo condannato: «Nessun musulmano parteciperà alla manifestazione sponsorizzata dal Papa e, se qualche fonte informativa diffonderà la notizia, Iddio non voglia, della partecipazione di esponenti dell’Islam, sappia il nostro lettore che quei signori, etichettati come "rappresentanti dell’Islam", non rappresentano che se stessi e la loro ignoranza. E Iddio li riporti sulla retta via». Va riconosciuto che in seguito tali toni polemici si sono attenuati, ma resta il problema di un radicale divario nel modo in cui ci si pone nei confronti altrui. Ora che si è a più stretto contatto, nella società multietnica globalizzata, non è detto che si debba continuare a «scomunicarsi» a vicenda né limitarsi all’asettico rispetto del politically correct.
Un rappresentante dei Giovani musulmani italiani ha portato lo scorso anno la sua solidarietà alla comunità ebraica milanese che al binario 21 della Stazione Centrale ricordava la partenza dei convogli per i campi di sterminio nazisti… violando più di un tabù, rinunciando ad autocensurarsi come avrebbe potuto fare semplicemente rimuovendo la questione, ma esponendosi e rischiando di persona e per conto della sua associazione, in nome della comune umanità.
(L’autore è arabista e islamologo e insegna all’Università cattolica del Sacro Cuore – Milano)