In coincidenza con la visita in Vaticano del primo ministro israeliano Ehud Olmert, il 13 dicembre scorso sono ripresi a Gerusalemme gli incontri di lavoro tra i negoziatori della Santa Sede e di Israele, per dare pieno compimento all'Accordo fondamentale concluso dalle due parti nel 1993. All'ordine del giorno ci sono i regimi fiscali e di proprietà spettanti alla Chiesa cattolica. Una materia complessa, sulla quale abbiamo chiesto lumi a un vero esperto: il giurista francescano padre David-Maria A. Jaeger.
Mercoledì 13 dicembre Benedetto XVI ha ricevuto in udienza in Vaticano il primo ministro israeliano, Ehud Olmert. Contemporanamente si svolgeva nella sede del ministero degli Esteri di Israele una sessione della Commissione bilaterale permanente di lavoro tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, la quale «incornicia» i negoziati tra l’autorità sovrana della Chiesa cattolica e lo Stato ebraico, miranti ora a dare attuazione all’articolo 10 dell’«Accordo fondamentale» tra le due parti (1993), che prevede un’«accordo globale» sulle questioni fiscali e di proprietà pendenti tra Chiesa e Stato in Israele.
Questi negoziati sono stati avviati l’11 marzo 1999, ma sono proseguiti alquanto saltuariamente. È comprensibile perciò che il Comunicato congiunto diffuso in occasione del recente incontro parli di un impegno «condiviso nell’accelerare il ritmo, per arrivare il prima possibile» all’accordo; un’accelerazione che si intende prevista a partire dalla prossima riunione, annunciata per il 29 gennaio 2007.
Attorno alla visita del premier Olmert in Vaticano, e alla riunione dei negoziatori al ministero degli Esteri, si è sentita però qualche altra voce inattesa, pure riportata su qualche organo della stampa, che sembrava voler ridimensionare a sorpresa (in chiave riduttiva) la percezione sia dell’ Accordo fondamentale sia di quanto ora si sta negoziando.
In proposito abbiamo intervistato padre David-Maria A. Jaeger, francescano, esperto giuridico sui rapporti Chiesa-Stato in Israele, noto appunto per il suo apporto all’Accordo fondamentale firmato dalla Santa Sede e dallo Stato di Israele nel 1993.
Ultimamente qualche esponente dello Stato israeliano ha sostenuto che l’Accordo fondamentale è da ritenersi una semplice «intesa» o «dichiarazione di intenti»…
È evidente a tutti che l’Accordo fondamentale è un trattato di diritto internazionale pubblico: in questa qualità è stato negoziato, firmato, ratificato, e così evidenzia il suo linguaggio, compresa la clausola, che vi è inclusa, sull’entrata in vigore.
Riferendosi al fatto che Santa Sede e Stato d’Israele stanno negoziando su questioni fiscali, c’è chi dice che si tratti di una intesa locale…
È ugualmente evidente che anche gli ulteriori accordi negoziati da due soggetti sovrani – Santa Sede e Israele – e richiesti esplicitamente dall’Accordo fondamentale come l’Accordo economico, oggetto di negoziato sin dall’11 marzo 1999, sono trattati di diritto internazionale pubblico; lo evidenzia la natura delle parti, tra l’altro. Se si trattasse invece di semplici «intese», come, per esempio quelle tra la Repubblica italiana e le confessioni religiose, le parti sarebbero non la Santa Sede, ma la gerarchia ecclesiastica locale; non lo Stato, ma il governo.
Nessuno intende negare il carattere sovrano dello Stato di Israele, il che sarebbe del tutto assurdo. Ma la sovranità si esprime precisamente anche nella capacità legale di fare trattati, con cui lo Stato si vincola a rispettare sempre gli impegni dati all’altra parte sovrana, come sa qualsiasi studente di diritto anche alle prime armi… Gli impegni pattizi, per loro natura, non si possono mai modificare semplicemente per volontà unilaterale di una delle parti: l’impossibilità di una modifica unilaterale ne è proprio l’essenza.
Crede che sia questo il momento per la Chiesa di chiedere allo Stato d’Israele di rinunciare ad un’entrata erariale?
Che io sappia, allo Stato non si chiede neppur un centesimo, e non ci sarebbe nessuna perdita per l’erario derivante dall’accettazione di qualsiasi rivendicazione ora avanzata dalla Chiesa. Si tratterebbe unicamente di riconfermare i diritti in materia acquisiti dalla Chiesa secoli prima che sorgesse lo Stato di Israele. L’Onu, nell’autorizzare la creazione dello Stato, ordinò esplicitamente che non fossero toccati i diritti acquisiti; lo Stato d’Israele, in più, ha più volte promesso di rispettare, anche davanti ai consessi internazionali, questi stessi diritti acquisiti. Il nuovo Accordo darebbe semplicemente allo Stato la possibilità di riconfermare questi suoi impegni, e di farlo in maniera chiara e ordinata, di reciproca utilità.
Oltre alle esenzioni fiscali, ci sono anche altri argomenti che, secondo l’Accordo fondamentale, posso diventare oggetto di negoziato?
Determinante è anche la necessità di garantire la salvaguardia dei beni ecclesiastici, specialmente i beni a carattere sacro. In Israele vige ancora una legge che toglie proprio a questi beni sacri la tutela legale e giudiziaria, e li fa dipendere dal libero arbitrio dell’esecutivo, cioè dei politici di turno. È una legge vecchia, ereditata da un regime precedente, ma che non può essere tollerata in uno Stato di diritto. Purtroppo il governo ne ha fatto qualche uso anche in tempi recenti. Superarla sarebbe nell’interesse dell’intera società, come scrive anche qualche esimio giurista israeliano. Per la Chiesa sarebbe una necessità. È importante insistere: sotto questo aspetto, la Chiesa non domanda per questi luoghi sacri se non il diritto fondamentale di qualsiasi proprietario: quello di poter difendere il suo diritto di proprietà per le vie legali, e di non vederlo consegnato invece nelle mani dei politici, senza alcun ricorso giudiziario.
Ancora sulle tasse, ora quelle municipali. Qualcuno in Israele teme le imprese collocate in immobili di proprietà di enti ecclesiastici siano messe, dalle esenzioni fiscali, in condizioni di vantaggio rispetto ad altri soggetti…
La Chiesa in Israele non ha mai preteso l’esenzione dall’equivalente della nostra Ici (la tassa comunale sugli immobili) per i beni immobili a uso commerciale. La richiesta vale solo per i beni in uso religioso o comunque non-profit. Una tale esenzione è garantita dalla stessa legge israeliana, oltre che dalla già menzionata risoluzione Onu. Questo fino al 2002, quando, negoziato in corso, lo Stato ha sensibilmente ridotto l’esenzione con una legislazione repentina e frettolosa, senza neppure un preavviso. È stato un errore, un incidente di percorso, che ora però andrebbe rettificato.
Ma tutte queste agevolazioni riguardanti gli enti cattolici, non provocherebbero ricorsi in cassazione in Israele per la mancata eguaglianza con altro soggetti, supponiamo ebraici?
La stessa Suprema Corte di Israele ha sentenziato più volte che l’eguaglianza non vuol dire un’automatica identità di trattamento; la sentenza più recente in questo senso è stata pubblicata – guarda caso – proprio il 13 dicembre, mentre il premier Ehud Olmert si trovava in visita in Vaticano. Perciò non si può assolutamente dire che il rispetto per i diritti acquisiti della Chiesa dovrebbe essere bocciato come contrario al principio dell’eguaglianza qualora ne risultasse un trattamento non identico rispetto alle istituzioni religiose ebraiche… Le situazioni sono infatti radicalmente diverse: le istituzioni ufficiali della religione ebraica fanno parte dello Stato medesimo, e da esso preventivate direttamente. Anche quelle volontarie vengono lautamente sovvenzionate, mentre la Chiesa non si aspetta – e neppure accetterebbe – nulla. Chiede soltanto il rispetto dei diritti acquisiti, internazionalmente riconosciuti.
La Chiesa, come altri enti, non dovrebbe forse concorrere a provvedere al bene comune? Le tasse sono uno strumento per farlo.
Nessuno risponde a questo compito, da secoli, quanto la Chiesa cattolica. La Chiesa, è stato più volte spiegato agli interlocutori, è un «importatore netto di capitale» umano e finanziario nel Paese! Essa porta da altrove, dall’Italia e da tutto il mondo cattolico, personale e mezzi impiegati solo per il bene comune, dando un inestimabile apporto morale con il culto, ma conferendo anche visibili benefici sociali ed educativi – con le sue opere di carità, le sue scuole per la popolazione – e persino benefici propriamente economici, con il lavoro che dà, ma soprattutto con i pellegrini e turisti che la sua presenza e la sua testimonianza attira. E, a differenza di tante imprese straniere, che ricevono pure inimmaginabili sovvenzioni dallo Stato (finanziamenti diretti oltre che esenzioni fiscali), la Chiesa non «esporta» alcun «guadagno» al di fuori del territorio. Tutto quello che può ottenere lo «reinveste» nelle sue opere di bene all’interno del territorio stesso.
Israele dunque non potrebbe regolarsi autonomamente in materia. Sarebbe sempre vincolato ad uno status precedente alla sua nascita come Stato?
Lo Stato d’Israele non può far finta d’essere nato su una tabula rasa, considerando il 1948 (anno della sua creazione) come l’Anno Zero. Sul territorio c’era già la Chiesa, con il suo insieme di realtà fisiche, morali e sociali, e con i suoi diritti faticosamente acquisiti lungo i secoli. In termini strettamente istituzionali, l’istituzione centrale della Chiesa cattolica in Terra Santa, la francescana Custodia di Terra Santa, è lì giuridicamente – senza soluzione di continuità – almeno dal 1342… Non si può fare finta che le espressioni istituzionali di questa Chiesa mondiale esistano in territorio israeliano soltanto per concessione di uno Stato nato non prima del 1948. Questo stesso Stato, al suo nascere, non pretese mai una cosa del genere. Anzi fece di tutto per rassicurare la Chiesa e il mondo intero di capire bene le sue responsabilità, il suo obbligo di riconoscere queste istituzioni, di rispettare questi diritti, di attenersi alla volontà internazionale. Così la stessa Dichiarazione di Indipendenza del 14 maggio 1948 dice esplicitamente che lo Stato viene creato «in virtù della risoluzione delle Nazioni Unite».
Lei ha parlato di nuove norme per la tutela legale e giudiziaria dei beni sacri… Non possiamo dimenticare le questioni pendenti a riguardo di alcuni beni particolari.
L’Accordo che è oggetto di negoziato dovrebbe contemplare – come risulta dallo stesso Accordo fondamentale – la restituzione alla Chiesa di un certo numero di beni, anche di grande importanza religiosa, tolti ad essa dallo Stato nel corso degli anni. Un esempio che viene in mente è la chiesa-santuario di Cesarea marittima, espropriata e rasa a suolo negli anni Cinquanta, lasciando senza alcun luogo di culto cristiano la zona che vide la discesa dello Spirito Santo sui gentili, poi accolti nella Chiesa da san Pietro, la prigionia di san Paolo… Cesarea fu centro importantissimo della giovane Chiesa, sede metropolitana cui fu soggetta persino Gerusalemme… La Chiesa che è in Israele desidera moltissimo il recupero di questo Luogo Santo devastato.
Lei non menziona la questione del Santo Cenacolo… Ci sono novità?
È di dominio pubblico, da molto tempo, che l’argomento è inserito nell’agenda dei negoziati. Il caso di Cesarea invece mi sembra troppo poco conosciuto.
Come si inserirebbero questi accordi e negoziati nel contesto più vasto dei rapporti Chiesa-Stato nella regione?
Il tutto risale alla grande visione di Giovanni Paolo II, che volle che la presenza cristiana ed ecclesiale in Medio Oriente non fosse più, nella migliore delle ipotesi, semplicemente «tollerata», ma che avesse con gli Stati rapporti di libertà, basati su regole condivise per il rispetto reciproco dei rispettivi diritti. Così, all’Accordo fondamentale con Israele (30 dicembre 1993), egli fece seguire l’Accordo di base con la Palestina (in previsione della sua indipendenza) del 15 febbraio 2000, spianando la strada ad eventuali futuri trattati del genere con altri Paesi della regione. L’Autorità palestinese, che è l’embrione del futuro Stato di Palestina, controlla già da qualche anno Betlemme, Gerico e altre parti dei Territori. Quello che la Chiesa non riuscirà a farsi riconoscere in Israele, difficilmente poi potrà sperare di ottenere in Palestina. Anche per questa ragione l’intera cattolicità si deve impegnare sempre più nel far riuscire le trattative con Israele.
Lei presiede un’organizzazione che ha come scopo proprio quello di far conoscere ai cristiani l’importanza di queste trattative.
Sì. Si tratta di The Church and Israel Public Education Initiative. È stata fondata negli Stati Uniti quale associazione privata, civile, da cattolici amici di Israele e devoti della Terra Santa. Intende rivolgersi anche ai «fratelli maggiori» ebrei, che negli Stati Uniti (ma non solo) hanno sempre ottimi rapporti con i cattolici. Forse presto sorgeranno circoli analoghi anche in Italia…