Il copricapo nero in uso ai vescovi orientali fa sembrare ancora più candida la barba che gli incornicia il volto. Giusto un anno fa, il 25 febbraio, abuna Elias Chacour diventava arcivescovo greco-cattolico di Akko e della Galilea. Un incarico al quale il santo sinodo di questa Chiesa cattolica di rito orientale lo ha chiamato dopo una vita spesa nell’apostolato parrocchiale, nell’educazione dei ragazzi e nelle tante esperienze di dialogo promosse in Israele e Palestina.
Riconciliazione. Scrive abuna Elias qualche giorno dopo l’elezione: «Non sognavo questa responsabilità e questo grande onore. Avevo sogni differenti. Alla mia età avevo l’ambizione di poter dedicare il resto della mia vita alla preghiera, alla lettura e alla scrittura. Ma come per Paolo sulla via di Damasco, il Signore ha voluto farmi sapere che è lui a governare le cose. Voglio far giungere attraverso la preghiera un caloroso augurio di pace e di giustizia a tutti i miei fratelli e sorelle, ai musulmani, agli ebrei e ai drusi».
Ma chi è questo vescovo che chiama fratelli gli ebrei, i musulmani e i drusi? Galileo di nascita, Elias Chacour studia a Nazareth e compie gli studi teologici a Parigi, presso il seminario di San Sulpizio. Viene ordinato sacerdote dall’arcivescovo di Akko e futuro patriarca di Antiochia Maximos IV Sayeh (che difese con forza durante il concilio Vaticano II le tradizioni e l’ecclesiologia delle Chiese d’Oriente contro i rischi e i tentativi di «latinizzazione»). Sono gli anni del rinnovamento conciliare. Il fermento della Nostra Aetate contagia anche il giovane abuna Elias, che si dedica agli studi ebraici, alla Torah e al Talmud presso l’Università ebraica di Gerusalemme.
Giovane prete viene destinato come parroco a Ibillin, un villaggio della Galilea. Non è un posto qualsiasi. Ibillin è il luogo di nascita di suor Mariam Baouardy, la «piccola araba» fondatrice del Carmelo di Betlemme (ne parliamo alle pp. 51-53). La Chiesa cattolica melchita a Ibillin ha una lunga storia e tradizione, ma il villaggio necessita di qualche cambiamento. Abuna Elias si rimbocca le maniche e inizia a lavorare per creare una scuola aperta a tutti i ragazzi del villaggio e del circondario, ebrei, cristiani, musulmani e drusi. Un sogno che si concretizza a Jebel-an-Nour all’inizio degli anni Ottanta, con la fondazione di un istituto frequentato oggi da 4.500 alunni.
Fratelli, non nemici. Per il suo impegno in favore dell’educazione dei ragazzi, della pace e della non-violenza, abuna Elias inizia ad essere conosciuto anche fuori dalla Terra Santa e riceve alcuni prestigiosi riconoscimenti. Invitato ad aprire l’anno accademico presso la Emory University di Atlanta (Usa) spiega in poche parole il suo metodo, fatto di conoscenza, stima reciproca, chiarezza: «A chi è in favore di Israele, in nome dei bambini palestinesi dico: mostra ancora più amicizia verso gli israeliani, ne hanno bisogno. Ma smettila di interpretare questa amicizia come un’automatica ostilità verso di me, uno dei palestinesi che sta pagando il prezzo di quello che altri hanno fatto ai miei amati fratelli ebrei, con l’Olocausto, con Auschwitz e altri posti simili. Se tu hai deciso di stare con i palestinesi, stai davvero dalla nostra parte. Ma se stare con noi significa essere contro i miei fratelli ebrei, lascia perdere. Non ci serve un nemico in più».
Nel luglio 2003 l’albero piantato a Ibillin offre un altro frutto: l’Autorità per l’istruzione superiore in Israele approva il Mar Elias Campus, sede distaccata dell’Università di Indianapolis, Usa. Tre le facoltà: Scienze dell’ambiente, Informatica e Comunicazione. Con l’attivazione di altre tre facoltà (Infermieristica, Fisioterapia, Economia e Commercio), gli studenti del Campus raggiungono le 600 unità. Il traguardo è, a pieno regime, quello dei 2 mila studenti. «Ci hanno dato spesso degli ambiziosi – afferma abuna Elias -. La nuova università sembrava essere un sogno irrealizzabile. Oggi è una realtà. Credo possa costituire un solido ponte tra arabi cristiani e musulmani e gli ebrei d’Israele, uno dei motori di cambiamento del Medio Oriente». Tra gli strumenti del Campus c’è anche il Peace Center, che si propone di offrire agli studenti percorsi e iniziative nel campo della non-violenza e della soluzione pacifica dei conflitti. La speranza è che si possa arrivare a breve a un corso di studi in Scienze della pace. «Abbiamo avviato contatti con l’Università cattolica dell’Australia – spiega – per mettere a punto i programmi e attivare l’insegnamento».
Nel Medio Oriente segnato dai conflitti seminare speranza sembra essere tutt’altro che un’attività inutile.