Il 14 febbraio di due anni fa l'ex primo ministro libanese Rafik Hariri veniva ucciso a Beirut con un devastante attentato dinamitardo che faceva numerose vittime. Nei giorni seguenti la gente scendeva in piazza a manifestare pacificamente e a chiedere una svolta. Molte cose sono cambiate da quel giorno. La più eclatante è stato il ritiro delle forze armate siriane. Eppure il Paese dei Cedri non ha trovato pace, anzi. Dopo la guerra tra Hezbollah e Israele, nell'estate 2006, oggi sembra sulla soglia di un nuovo conflitto civile che potrebbe precipitare la nazione nel baratro. Riusciranno i libanesi ad essere padroni del loro destino? Sapranno fermarsi in tempo?
«Nel nostro Paese la verità finisce sempre per apparire. Il Libano non può vivere senza la sua democrazia». Era spontaneo, sincero e fiducioso il motto che il 14 marzo di due anni fa guidò un milione di persone nella piazza dei Martiri di Beirut per commemorare Rafik Hariri.
Un mese prima l’ex premier era rimasto ucciso nella capitale libanese in un sanguinoso attentato che avrebbe segnato l’inizio di una nuova, e quantomai incerta fase per il Libano. Il ritiro dal Paese delle truppe di Damasco prima, le elezioni vinte da una coalizione anti-siriana poi – con l’affermazione del figlio dello stesso Hariri, Saad -, la guerra della scorsa estate tra gli estremisti sciiti di Hezbollah e Israele. Fino ad arrivare all’attuale, delicatissimo stallo, con i tentativi di mediazione tra maggioranza e opposizione condizionati dagli scontri di strada.
La stessa piazza dei Martiri, dove domani si raduneranno decine di migliaia persone per ricordare il secondo anniversario della morte di Hariri, potrebbe trasformarsi in un campo di battaglia, nel quale rischiano di esser spazzate via le speranze di una soluzione indolore alla crisi in corso. È su quella piazza, infatti, che dal primo dicembre prosegue senza sosta il sit-in degli attivisti dell’opposizione pro-siriana. La maggioranza denuncia che sono in possesso di armi e materiale da guerra. Loro negano, ma sottolineano che non smobiliteranno finché le non otterranno quel che vogliono. Chiedono, nell’ordine, le dimissioni dell’attuale governo, la formazione di un esecutivo di unità nazionale e la convocazione di elezioni anticipate.
Ma non solo, perché a dividere maggioranza e opposizione è anche l’inchiesta sulla morte dello stesso Hariri. In particolare, Hezbollah vuole avere voce in capitolo sullo statuto del tribunale a carattere internazionale che giudicherà i responsabili dell’attentato. «Il processo Hariri non dovrà essere politico ma solo penale e dovrà esser svolto rispettando i princìpi giuridici libanesi», ha avvertito il vice segretario generale di Hezbollah, Naim Kassem, che ha ribadito anche l’ostracismo a «ogni tipo di ingerenza straniera negli affari interni del Libano».
Che la vigilia per la commemorazione di domani sia incandescente lo si desume anche dalle barriere erette dall’esercito nella piazza dei Martiri, letteralmente tagliata a metà in un tentativo di tener lontani il più possibile i supporter governativi da quelli dell’opposizione. Le ultime notizie di cronaca (due esplosioni avvenute questa mattina a bordo di due minibus vicino a Bifkaya, città cristiana in Libano, hanno provocato la morte di almeno 9 persone e numerosi i feriti) non lasciano presagire nulla di buono.
A cercare di stemperare la tensione è stata, due giorni fa, la vedova di Hariri, Nazik, con un appello diretto al leader di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah. Dalle colonne di al-Mostaqbal, il quotidiano di proprietà della famiglia dell’ex premier, Nazik ha chiesto che la commemorazione del marito si trasformi in una «manifestazione di unità e di amore per il Libano» che restituisca ai libanesi «la speranza di un futuro migliore».
Il tentativo di riavvicinamento è però già caduto nel vuoto, con il movimento sciita che ha sottolineato come «l’attuale spaccatura del Paese non consente di riunirci in un’unica cerimonia, quale che sia l’occasione». A tentare di ricucire posizioni apparentemente inconciliabili sono una pletora di mediatori, tra i quali il segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, volato due giorni fa a Damasco per intavolare «colloqui cruciali». Il nuovo round di trattative ad alto livello sarebbe stato deciso in seguito alla Conferenza dei donatori per il Libano, tenutasi lo scorso 25 gennaio a Parigi, che ha segnato il rinnovato interesse della comunità internazionale per il Paese dei cedri.
Gli analisti si interrogano, tra l’altro, sulle indiscrezioni secondo le quali il presidente del Parlamento libanese, lo sciita Nabih Berri, avrebbe intenzione di costituire una «commissione tecnica paritetica» tra l’esecutivo e l’opposizione in grado di trovare un accordo sullo statuto del tribunale che indagherà sull’omicidio di Hariri. Lo scorso novembre il governo di Fouad Sinora approvò la bozza dello statuto preparato dalle Nazioni Unite, ma questa mossa portò alle dimissioni di sei ministri sciiti pro-siriani e venne rifiutata anche del presidente della Repubblica, Emile Lahoud. L’istituzione del tribunale necessita del «sì» di almeno due terzi dell’assemblea parlamentare libanese, ma la maggioranza può contare soltanto su 72 degli 85 voti necessari a tale scopo. È anche possibile che la creazione del tribunale venga rimandata fino alla conclusione dell’inchiesta sulla morte di Hariri, portata avanti dagli investigatori delle Nazioni Unite.
Spettatori (molto) interessati di questa intricata partita sono altre potenze regionali, dalla sciita Teheran, protettrice di Hezbollah, alla sunnita Riyadh, che sostiene il governo Siniora, fino alla stessa Damasco. In particolare, osservano gli analisti, mentre i colloqui tra Iran e Arabia Saudita stanno facendo registrare dei timidi progressi – soprattutto riguardo alla formazione di un nuovo esecutivo libanese di unità nazionale, con un maggior peso accordato al movimento sciita – la Siria sta combattendo in tutti i modi dietro le quinte la formazione del tribunale internazionale. Proprio il governo siriano è stato accusato all’indomani della morte di Hariri di aver pianificato l’attentato in collegamento con i suoi alleati di Beirut.
Al di là delle speculazioni diplomatiche, sarà molto probabilmente la piazza, la «storica» piazza dei Martiri, a evidenziare lo stato dell’attuale crisi libanese. Dopo gli scontri di gennaio (sette morti e oltre trecento feriti nella sola capitale), la speranza che la commemorazione dell’ex premier si svolga in un clima pacifico sono poche. La sensazione che si sia vicini a una sorta di guerra civile la si comprende anche dai prezzi registrati nelle ultime settimane al mercato nero delle armi. Servono più di settecento dollari per un kalashnikov che prima ne costava cento, mentre il prezzo dei proiettili è praticamente decuplicato. A far lievitare i prezzi la solita legge della domanda e dell’offerta, dove la domanda è costituita non solo dai miliziani ma anche dalle centinaia di persone che in un Ak-47 vedono la «protezione minima» per sé e per la propria famiglia in questo clima politico avvelenato.
Alcuni analisti, come Patrick Haenni dell‘International Crisis Group, ritengono comunque che la guerra civile non sia vicina. O che quanto meno essa necessiti, per scoppiare definitivamente, di una «decisione politica», che finora «non è stata presa». È quel «finora» a segnare il labile confine di ciò che è e ciò che potrebbe accadere, in un Libano che già per quindici anni ha vissuto l’incubo del conflitto interno permanente e che domani proverà, ancora in quella fatidica piazza dei Martiri, a guardarsi allo specchio per capire se sia in grado o meno di cancellare i fantasmi di un triste passato.