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L’esodo dei cristiani in Iraq, un «effetto collaterale?»

l'editoriale
7 marzo 2007
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Negli ultimi tre anni oltre 100 mila cristiani avrebbero lasciato l’Iraq. Molti fuggono a causa dell’incertezza politica e della difficilissima crisi economica. Altri fuggono perché minacciati, in un Paese dove la violenza, il terrorismo e l’islam fondamentalista crescono ogni giorno di più.

Mi racconta questi episodi un sacerdote iracheno di Mossul (l’antica Ninive) che sta trascorrendo un periodo di studi a Roma. I cristiani iracheni sono diretti soprattutto in Siria e Giordania. In molti si presentano ai funzionari dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) per chiedere asilo politico e un visto per qualche Paese occidentale. È di questo ultimi giorni la notizia che il governo di Washington è intenzionato a concedere asilo a 7 mila profughi iracheni nel corso del 2007.

La decisione Usa di aumentare i visti per i rifugiati (una grande novità, se si considera che l’asilo è stato concesso solo a 463 persone negli ultimi 4 anni) è una goccia di fronte all’emergenza in atto, e non risolve la gravissima crisi umanitaria in cui si trovano i profughi iracheni e gli sfollati interni. Si stima che dal 2003 siano 3 milioni e 8oo mila gli iracheni che hanno lasciato la propria casa. Per l’Acnur sembra siano in arrivo 18 milioni di dollari, insufficienti però a soddisfare il fabbisogno stimato (60 milioni di dollari).

Resta il dolore di un conflitto che sta dilaniando l’Iraq, con una tremenda scia di sangue. Una guerra nella quale l’esodo dei cristiani è da troppi liquidato come un ineluttabile «effetto collaterale».

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