La tradizione vuole che siano i discendenti di re Salomone e della regina di Saba. Per i rabbini le loro radici affondano nella tribù di Dan. Sono gli ebrei etiopi, coloro che la lingua amarica definisce stranieri (falasha), per l'invincibile resistenza a lasciarsi assimilare. Gran parte di loro ha lasciato il Corno d'Africa e si è stabilita in Israele, grazie all'iniziativa del governo israeliano. In Etiopia è rimasto il gruppo dei falasha mura, guardato con sospetto dagli ebrei ortodossi perché in passato si convertì al cristianesimo. Ora anche per i mura sembra aprirsi la strada verso la Terra promessa.
Non si sa esattamente quanti siano; probabilmente, tutti insieme, a stento riempirebbero una cittadina di media grandezza.
Si, sa che loro, una distinzione nella distinzione, si chiamano falasha mura e che vivono con poco, in campi privi dei requisiti principali per ospitare esseri umani, tra cui l’acqua corrente, attorno ad Addis Abeba. Falasha significa «stranieri» ed è il termine con cui la lingua amarica definisce da lunghissimo tempo la comunità ebraica etiope. Una stirpe che, secondo una nota tradizione, discenderebbe da re Salomone e dalla regina di Saba. Storicamente irriducibile ad ogni tentativo di assimilazione, questa popolazione ha ricevuto, dopo un congruo numero di secoli, il premio più ambito da ogni ebreo: il ritorno a Gerusalemme, nella Terra Promessa. Cosa che si è verificata soprattutto in due momenti, grazie ad altrettante iniziative del governo israeliano: l’Operazione Mosè, del 1984, e l’Operazione Salomone, nel 1991, entrambe difficili dal punto di vista diplomatico e piuttosto avventurose nella realizzazione.
Grazie all’applicazione della Legge sul ritorno che Israele si è data nel 1950, ora circa centomila falasha si sono integrati, non senza fatica, nella loro patria ideale, e sono sfuggiti a un destino fatto di povertà e stenti.
Il caso vuole che a rimanere estromessi per anni dallo zelo di Israele verso i loro fratelli africani, siano stati i falasha mura, cioè il sottogruppo di etiopi che condividono con i più fortunati falasha la comune discendenza dalla tribù di Dan (secondo il giudizio dei rabbini), ma che hanno, per loro disgrazia, «ceduto» alle argomentazioni dei missionari del XIX secolo e si sono convertiti al cristianesimo.
Ciò ha rappresentato nella storia recente uno spartiacque tra chi aveva diritto al rientro in Israele e chi non ne aveva titolo, e non ha contato più di tanto il fatto che una cifra (poco quantificabile) dei falasha mura siano tornati alla fede ebraica. Non che Israele abbia del tutto estromesso dal rientro la variante cristiana dei falasha: fortunatamente in sede governativa il dato etnico sembra avere la meglio sull’opzione religiosa; solo che negli ultimi tre lustri i falasha mura sono arrivati a Gerusalemme alla spicciolata, ad un ritmo di trecento per anno, e per questo si stima che delle ventiseimila unità da cui è formato l’intero gruppo, diciottomila individui lottino per la sopravvivenza nelle vicinanze di Addis Abeba.
Ecco perché se Israele dovesse chiudere la partita e gli etiopi fossero completamente reintegrati entro la fine del 2007, come auspicano i rappresentanti dei falasha mura, un caso umanitario che inizia ad avere echi sui media verrebbe forse pienamente risolto. Paradossalmente, Israele si potrebbe comunque rivelare più pronto ad accogliere i falasha mura rispetto a quanto non sia avvenuto ai tempi dell’ingresso dei primi falasha.
Questi ultimi avevano trovato qualche problema ad integrarsi per varie ragioni: anzitutto per via di una lunga permanenza in una società (quella etiope) del tutto differente da quella israeliana; poi per una fede non in linea con quella di Israele dato che gli ebrei etiopi non hanno mai conosciuto i testi rabbinici. Quest’ultimo, in particolare, era stato il motivo per cui il governo aveva proceduto all’assimilazione dei falasha solo dopo il parere favorevole delle autorità religiose, giunto al termine di lunghi dibattiti.
Ora – benché qualcuno storca il naso rispetto al cristianesimo professato dai falasha mura subodorando possibili azioni missionarie in Israele – sembra che lo Stato sia maggiormente strutturato per incorporare senza traumi questi profughi: la ricetta riguarda l’impiego nel settore pubblico e nell’esercito delle forze migliori immigrate, un’attenta assistenza ai più anziani, un’adeguata valorizzazione dei più giovani.