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Kippah, mano di Dio sul capo dell’uomo

Elena Lea Bartolini
7 maggio 2007
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«Rabbi Jehoshua figlio di Levi diceva: “Non è consentito all’uomo percorrere quattro braccia in posizione altera, perché è scritto: ‘Tutta la terra è piena della Sua gloria’ (Is 6,3)”. […] Rabbi Huhah non percorreva quattro braccia a capo scoperto, giacché diceva: “La Provvidenza è sopra il mio capo”» (Talmud Babilonese, Kiddushin 31a). Da ciò si deduce che stare a «capo scoperto» è un gesto che può essere interpretato come segno di irriverenza nei confronti di Dio.

La kippah – il piccolo copricapo a forma di «zuccottino» – è sicuramente uno dei simboli noti che distingue l’appartenenza alla tradizione e alla fede ebraica.

Anche se non tutti gli ebrei la portano costantemente, la kippah costituisce un segno obbligatorio in particolari contesti come la preghiera, lo studio dei testi sacri, la celebrazione famigliare delle feste, l’ingresso in sinagoga se è presente il rotolo della Torah (l’insegnamento divino rivelato al Sinai), situazioni nelle quali anche il non ebreo che desidera conoscere o condividere momenti della liturgia e della vita ebraica è invitato a coprirsi il capo.

L’uso di mantenere il capo sempre coperto non ha fondamenti biblici espliciti: la Scrittura attesta l’uso del copricapo per i sacerdoti (Es 28, 4.37.40) e come segno di lutto (cfr 2Sam 15,30 e 19,5; Ger 14,3-4), che la tradizione rabbinica conferma menzionando inoltre particolari situazioni come quella dell’essere oggetto di «interdizioni» o dell’essere colpiti da lebbra. La medesima fa riferimento anche al capo coperto come segno di «timore» nei confronti della «Presenza divina», ma sull’imposizione di tale prassi si discute. Tuttavia, alla fine dell’epoca antica, l’obbligo di coprire il capo durante la preghiera si impone per tutti e, nel medioevo, si diffonde l’uso di portare sempre la kippah che, secondo l’opinione di alcuni, potrebbe essere nato dalla necessità di un segno visibile di appartenenza e di distinzione; ma anche in relazione a questo il dibattito è aperto soprattutto fra ebrei conservatori e riformati. In ogni caso la tradizione conserva una serie di significati legati all’uso del copricapo che ci attestano l’importanza della valenza dei simboli per la coscienza ebraica.

Innanzitutto possiamo ricordare che nell’antichità, soprattutto nel regno dei Parti, il capo coperto costituiva un segno di dignità, pertanto la generalizzazione nell’uso della kippah può essere intesa come riconoscimento della comune dignità degli uomini figli dello stesso Creatore. Il significato più diffuso inoltre è quello legato all’atteggiamento di «timore» e «rispetto» nei confronti della trascendenza divina: coprirsi il capo significa pertanto riconoscere la finitezza dell’uomo che sta «sotto il cielo», cioè sotto lo sguardo divino, che è lo sguardo di un «Padre amoroso» al quale si riconosce l’autorità di Colui che è fonte di salvezza e di giustizia, Colui dal quale proviene l’insegnamento rivelato da cui dipende l’orientamento di chi vuole «scegliere la vita» (cfr Dt 30,15ss.). Su questa stessa linea c’è anche chi considera la kippah come la «mano divina» sul capo dell’uomo, una sorta di guida che è al contempo un monito, un «promemoria» costante nei confronti degli impegni assunti al Sinai: «faremo e ascolteremo» (Es 24,7). In altri termini: capiremo facendo sotto la guida di Dio, alla luce del Suo «sguardo».

Portare consapevolmente la kippah non è un gesto folkloristico ma una scelta che impegna radicalmente.


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