Siria e Giordania (con, rispettivamente, 1,2 milioni e 750 mila profughi iracheni) sono le destinazioni più frequenti, ma secondo l'Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) i numeri sono ormai importanti anche per gli altri Paesi dell'area, dall'Egitto (100 mila sfollati) all'Iran (54 mila), dal Libano, con 40 mila presenze, alla Turchia, che già ospita 10 mila profughi iracheni.Dai racconti dei profughi la speranza di un futuro in Europa o negli Stati Uniti. Qualcuno ha già il biglietto in tasca, altri si sottopongono alla trafila burocratica dell'Alto commissariato Onu per il rifugiati. Intanto la vita continua nei campi di raccolta, non privi di asprezze.
«L’Iraq è nel mio cuore: non c’è alcun Paese bello quanto l’Iraq», dice Lubna, madre di tre bambine. «Qui abbiamo ritrovato la sicurezza, ma la nostra dignità è perduta», le fa eco Massud, il marito. Visto da Beirut con gli occhi di chi si è lasciato alle spalle tutta la propria vita, l’Iraq è il luogo in cui tornare, un domani, quando il Paese non sarà più in preda alla violenza. Ma attualmente il flusso di quanti fuggono dagli attentati, dagli scontri settari, dagli agguati indiscriminati, è un fiume in piena che «travolge» con la sua regolarità tutti gli Stati vicini.
Siria e Giordania (con, rispettivamente, 1,2 milioni e 750 mila profughi iracheni) sono le destinazioni più frequenti, ma secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur) i numeri sono ormai importanti anche per gli altri Paesi dell’area, dall’Egitto (100 mila sfollati) all’Iran (54 mila), dal Libano, con 40 mila presenze, alla Turchia, che già ospita 10 mila profughi iracheni.
«Abbiamo camminato per due ore in silenzio. Eravamo terrorizzati. Era notte, e temevamo che le bambine potessero cadere in acqua. Le guardie di frontiera libanesi ci hanno sparato contro», racconta Lubna ricordando la fuga da Mosul. Da questa città, situata 370 chilometri a nord di Baghdad, la rotta seguita da Lubna e Massud punta verso il Kurdistan. Da qui il passaggio in Siria e ancora avanti verso il Libano con la traversata di un fiume su una barca traballante. «Mia madre mi ha detto: prendi la tua famiglia e cercati un futuro altrove», racconta Massud, un fratello poliziotto ammazzato dalla guerriglia.
Il viaggio, intrapreso nel dicembre del 2004, costa 1.200 dollari. Oggi Massud e Lubna, cristiani caldei, vivono a Jdeide, sobborgo alla periferia di Beirut. Si calcola che i profughi iracheni cristiani in Libano siano tra il 15 e il 30 per cento del totale degli sfollati. «Sotto Saddam Hussein ci sentivamo sicuri. Almeno avevamo la nostra dignità e una vita decente», sbotta Duleir Nuri Sleiman, caldeo stabilitosi anch’egli a Jdeide, da dove spera di partire prima o poi per l’Europa o gli Stati Uniti. Per Saddam i cristiani, non avendo mai mostrato grosse ambizioni politiche, non costituivano una minaccia e potevano quindi vivere in una situazione di relativa sicurezza. Con la caduta del regime e l’inizio della guerriglia, invece, la minoranza cristiana in Iraq è sempre più diventata un facile obiettivo.
«I cristiani, così come i sunniti e gli sciiti, sono attratti dalla diversità religiosa del Libano», spiega Laure Chedrawi, funzionaria dell’Acnur. Grazie a un’intesa con le autorità locali, l’Acnur fornisce ai profughi iracheni che si registrano al loro arrivo in Libano, un certificato che attesta la loro identità e il loro status di sfollati. Sono circa una ventina ogni giorno le nuove registrazioni presso gli uffici di Beirut. Alcuni iracheni preferiscono invece spostarsi a Nord verso la Turchia, e da qui puntano a raggiungere l’Europa. «La mia famiglia ha appena ottenuto i documenti per andare in Svezia», racconta orgoglioso il dodicenne Sarmat. «Dicono che lì sia bellissimo».
Il Libano si fa sempre più cauto nell’accoglienza di nuovi profughi: teme infatti di rompere il già delicato equilibrio etnico sul quale si regge. «Vengono arrestate sempre più persone – ammette ancora Chedrawi – ma finora non c’è stata alcuna deportazione».
È stata proprio l’Acnur, il 26 luglio, a deplorare invece l’espulsione di 135 profughi iracheni dalla Turchia, chiedendo «chiarimenti urgenti» al governo turco. Gli sfollati sono stati arrestati a Urla, nell’Ovest del Paese, all’inizio di luglio e facevano parte di un gruppo di 500 persone che si preparavano a lasciare la Turchia, in gran parte clandestinamente. Molti di questi sfollati, però, avevano presentato domanda di asilo in Turchia. E la loro espulsione dunque costituirebbe, secondo l’Alto commissariato dell’Onu, una violazione del principio di non respingimento fissato nella Convenzione sui rifugiati del 1951.
Sulla difficile situazione degli sfollati iracheni in Turchia, e in particolare su quella dei cristiani, si sono espressi poco tempo fa monsignor Francois Yakan, vescovo caldeo a Istanbul, e monsignor Yusuf Sag, patriarca vicario della Chiesa siro-cattolica in Turchia: «Questi rifugiati rimangono qui diversi anni senza avere assistenza sanitaria, permessi di lavoro e diritto allo studio». Monsignor Sag, in particolare, ha sottolineato che spesso in Turchia l’Onu indirizza i rifugiati iracheni verso centri quali Isparta o Kastamonu, dove non ci sono comunità cristiane. «Sia cristiani che musulmani subiscono un trattamento inumano – ha sottolineato ancora il presule – Noi possiamo fare poco, è una tragedia umanitaria».