Quello che Giorgio Bernardelli ha da poco consegnato ai lettori è un libro che nasce dall'amore per il popolo di Israele, ma anche dal desiderio di restituire alle parole il rispetto e la dignità che meritano, tanto più quando sono oggetto di abuso come accade al vocabolo «antisemitismo». «È fondamentale oggi ridare un senso alla parola antisemitismo. Smettere di tirare di qua e di là questo termine come una coperta, finendo per lasciare scoperto ciò che davvero è pericoloso», scrive l'autore nel registrare la recrudescenza di odio antiebraico in varie parti del mondo.
(g.s.) – A Giorgio Bernardelli piace definire il suo Antisemitismo. Una categoria fuori controllo un «libro sul filo del rasoio». L’opera nasce dall’amore per il popolo di Israele, ma anche dal desiderio di restituire alle parole il rispetto e la dignità che meritano, tanto più quando sono oggetto di un uso inflazionato – se non di un vero e proprio abuso – come accade al vocabolo «antisemitismo».
«È fondamentale oggi ridare un senso alla parola antisemitismo. Smettere di tirare di qua e di là questo termine come una coperta, finendo per lasciare scoperto ciò che davvero è pericoloso», scrive l’autore nel denunciare e tentare di interpretare ciò che le cronache degli ultimi anni, in varie parti del mondo, segnalano come una recrudescenza di odio antiebraico.
Odio che Bernardelli inquadra in un contesto internazionale di tensione tra istanze nazionalistico-identitarie e macro-fenomeni come quello della globalizzazione economica e culturale. In un pianeta diventato troppo piccolo e sempre più tendente all’omologazione, i movimenti di reazione coinvolgono anche le religioni: «Non bastavano le guerre per il petrolio, per i diamanti e per le rotte commerciali: adesso ritornano a essere violenti anche i contrasti tra fedi diverse. Così la propria identità religiosa non è più considerata qualcosa che semplicemente si afferma. È un bene minacciato che dunque va difeso».
In un tale contesto riprende piede l’antisemitismo. «Perché l’odio contro gli ebrei non è "un’altra cosa" rispetto agli altri conflitti tra identità e religioni che, sopiti per decenni, oggi improvvisamente riemergono in tutta la loro violenza. C’è un denominatore comune che va assolutamente rintracciato».
D’altra parte il concetto va definito e circoscritto nel modo più preciso possibile, proprio per poterlo combattere con efficacia: «Il primo passo per rispondere all’antisemitismo è indubbiamente riconoscerlo. Operazione, però, meno semplice di quanto in apparenza possa sembrare. Perché chi lancia l’allarme ha assolutamente ragione: oggi ci sono forme di odio contro gli ebrei che si nascondono sotto vestiti ben più presentabili di un tempo. Proprio per questo, però, sarebbe ancora più importante dare una definizione assolutamente chiara e univoca di antisemitismo. Cosa che invece oggi, di fatto, non succede. (…) Quando i teorici del "nuovo antisemitismo" spiegano che l’antisionismo è il nuovo volto dell’odio contro gli ebrei (…) mettono il dito su una piaga reale (…) Ma proprio per questo volto nuovo che il fenomeno ha assunto, diventa assolutamente decisivo stabilire con chiarezza un confine: quello tra l’odio tout court verso Israele e la legittima critica delle scelte politiche dei suoi governi».
Un capitolo del volume è dedicato all’antisemitismo nel mondo musulmano e un altro a confutare la tesi secondo cui se Israele non ci fosse molti nodi si scioglierebbero come neve al sole: «Non brandire l’antisemitismo come un’arma. E nello stesso tempo fare i conti sul serio col fondamentalismo islamico. Sono due atteggiamenti entrambi indispensabili se si vuole affrontare davvero il problema drammatico dell’odio crescente nei confronti degli ebrei. C’è, però, anche un terzo passo, non meno importante in questa battaglia: capire che Israele e gli ebrei possono rappresentare una grande opportunità per il mondo d’oggi».
Il libro cerca di proporre qualche via d’uscita: di un uso più rispettoso delle parole abbiamo già detto. L’altra via maestra è la lunga e impervia strada dell’educazione. «È possibile – si chiede l’autore – pensare a una scuola i cui programmi partano dall’idea che l’identità, tutte le identità, non sono necessariamente un ostacolo, ma se ben comprese possono addirittura diventare una potenzialità? Si possono immaginare cicli didattici in cui si accetti davvero la fatica di provare a mettersi ciascuno nei panni dell’altro? Percorsi che aiutino a trarre, anche da esperienze dolorose che hanno segnato i propri popoli, conclusioni forti perché basate su principi e valori in grado di reggere davanti a qualsiasi altra circostanza storica il futuro ci dovesse riservare?».
Discorso che vale in Europa come in ogni luogo del mondo; tanto più nella terra di Israele e Palestina. Bernardelli cita due esempi positivi: la notissima esperienza di Nevé Shalom-Wahat as Salam – villaggio in cui da oltre trent’anni convive e cresce insieme un ugual numero di famiglie arabe ed ebree – e un libro scolastico sperimentale frutto del lavoro di dodici docenti che fanno parte del Peace Research Institute in the Middle East (Prime), i quali hanno voluto «un testo non "obiettivo" sugli eventi dell’ultimo secolo in questa regione del mondo, ma un libro che introduca i ragazzi al fatto che, dello stesso evento, esistono narrative diverse a seconda dei punti di vista».