Torna a parlare Avraham Burg, una delle coscienze critiche di Israele. Già il suo recente libro Defeating Hitler e la lunga intervista rilasciata ad Ari Shavit su Haaretz - con l'invito agli ebrei «a uscire dal ghetto sionista» - avevano fatto molto discutere qualche mese fa. Ora Burg lancia un'altra tesi forte: «Cari ebrei - dice - il nostro compito storico oggi è aiutare l'Occidente a non comportarsi con i musulmani come già si è comportato con noi in passato».
Torna a parlare Avraham Burg, una delle coscienze critiche di Israele. Già il suo recente libro Defeating Hitler e la lunga intervista rilasciata ad Ari Shavit su Haaretz – con l’invito agli ebrei «a uscire dal ghetto sionista» – avevano fatto molto discutere qualche mese fa.
Ora – alla vigilia di Rosh Hashanah, il capodanno ebraico, e sempre su Haaretz – Burg lancia un’altra tesi forte: cari ebrei – dice – il nostro compito storico oggi è aiutare l’Occidente a non comportarsi con i musulmani come già si è comportato con noi in passato.
In poche ore il sito di Haaretz si è già riempito di commenti. Segno eloquente di quanto le parole di Burg tocchino nervi scoperti. Ma è anche la storia personale di questa figura a infiammare: ex leader del movimento contro la prima guerra in Libano (1982), ex giovane promessa del partito Laburista, ex presidente dell’Agenzia ebraica (l’istituzione sionista per antonomasia in Israele), ex speaker della Knesset (la seconda carica dello Stato). Burg è – dunque – un uomo che negli anni Novanta è entrato nella stanza dei bottoni in Israele. Poi – nel 2003 – ha lasciato la vita politica.
Ma il libro di qualche mese fa e questo nuovo articolo di oggi dicono che il suo non è affatto un buen ritiro. Burg si sta proponendo sempre di più come il fautore di un post-sionismo in cui l’identità ebraica (che non rinnega affatto) torna a incontrarsi con l’orizzonte dell’universalismo. Lo dice a chiare lettere nell’articolo di oggi: «I risultati del nostro chiuderci, divenendo semplicemente una nazione della terra, sono molto tristi – scrive -. Per la prima volta dopo millenni non siamo più in prima linea rispetto alle grandi sfide del mondo». È in questo senso che si pone anche il suo paragone tra gli ebrei del Ventesimo secolo e i musulmani del Ventunesimo. L’incontro tra Occidente e islam – spiega – è la sfida su cui si gioca il futuro del mondo. Una sfida di fronte alla quale l’ebraismo deve ritrovare il suo ruolo di frontiera. Per aiutare l’Occidente a far sì che il tragico epilogo del rapporto con l’altro di ieri, non si ripeta con il nuovo altro di oggi.
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