Come scrive David Levy sulle colonne di Haaretz, dopo oltre 2.500 giorni dalla sua elezione George W. Bush arriva in visita in Israele e nei Territori palestinesi. Da mercoledì a venerdì farà la spola tra Gerusalemme e Ramallah. E dalla sua stanza del King David - l'hotel più celebre di Gerusalemme, ma anche il luogo dove nel 1946 si compì il più sanguinoso attentato delle formazioni paramilitari ebraiche (91 morti) al tempo della guerra contro gli inglesi - avrà modo di conoscere finalmente di prima mano le contraddizioni della Città Santa.
Come scrive David Levy sulle colonne di Haaretz, dopo oltre 2.500 giorni dalla sua elezione George W. Bush arriva in visita in Israele e nei Territori palestinesi. Da mercoledì a venerdì farà la spola tra Gerusalemme e Ramallah. E dalla sua stanza del King David – l’hotel più celebre di Gerusalemme, ma anche il luogo dove nel 1946 si compì il più sanguinoso attentato delle formazioni paramilitari ebraiche (91 morti) al tempo della guerra contro gli inglesi – avrà modo di conoscere finalmente di prima mano le contraddizioni della Città Santa.
Arriva dopo oltre 2.500 giorni. E ha ragione David Levy nel sottolinearlo. Un presidente entrato in carica all’indomani del fallimento di Camp David, che dalla Casa Bianca ha assistito a fatti come le giornate più nere della seconda intifada o il ritiro da Gaza, il presidente che non ha mai smesso di esprimere pubblicamente il suo appoggio ad Ariel Sharon, a Gerusalemme non aveva mai messo piede. Adesso ci arriva con un volo «last minute» decollato ad Annapolis. Ed è molto probabile che ci ritorni presto: Shimon Peres lo ha invitato per maggio, quando Israele celebrerà in grande stile i suoi 60 anni. E tutto lascia pensare che Bush ci sarà.
Due visite nel giro di cinque mesi: è l’ammissione più chiara dell’errore di valutazione compiuto da Washington sul Medio Oriente. L’amministrazione che nel clima del dopo 11 settembre ha preferito guardare altrove, ora nell’ultimo anno del mandato scommette tutto sulla pace tra israeliani e palestinesi. Si capisce lo scetticismo di tanti. Eppure sarebbe sbagliato sminuire la portata di questo viaggio. Se oggi si parla, almeno, di questioni come gli outpost (i nuovi insediamenti, illegali per la stessa legge israeliana ma mai sgomberati), l’espansione degli insediamenti, la situazione di Gerusalemme Est, è perché la comunità internazionale (e l’amministrazione Bush in primis) hanno posto nuovamente il tema del conflitto israelo-palestinese in evidenza sull’agenda del mondo. Negli ultimi sette anni non era stato così.
Basterà per arrivare a una soluzione entro il 2008 come si è auspicato ad Annapolis? In pochi ci credono, ma gli israeliani sotto sotto ci sperano: lo si legge chiaramente nel commento di David Horovitz, il direttore del Jerusalem Post, che citando un’intervista al premier Ehud Olmert nota che il tempo non gioca a favore di Israele e non è affatto detto che il successore di Bush sarà altrettanto filo-israeliano. Il problema vero è che cosa sono davvero disposti a mettere sul piatto. Come spiega altrettanto chiaramente il palestinese Walid M. Awab su Arab News, è inammissibile la pretesa di Israele di negoziare e avere mano libera per operazioni militari in Cisgiordania e (contemporaneamente) barcamenarsi sulla questione dei coloni.
Un viaggio chiave, dunque. Che dirà se Annapolis è stata solo una parata di buoni sentimenti o l’inizio di un percorso. Senza dimenticare che – subito dopo Gerusalemme – Bush farà tappa anche in Arabia Saudita e in Egitto. Snodi altrettanto importanti per parlare alla piazza palestinese.
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