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A Betlemme con il cuore di Maria

17/01/2008  |  Milano
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A Betlemme con il cuore di Maria
Suor Ileana Benetello, delle terziarie francescane elisabettine di Padova.

Abbiamo incontrato suor Ileana Benetello, la decana tra le sei suore che lavorano nel migliore ospedale pediatrico dei Territori palestinesi, il Caritas Baby Hospital di Betlemme. In Terra Santa dal 1981, la religiosa ci racconta le sofferenze della «sua» gente e il dolore per una situazione che sembra peggiorare di continuo, in una regione tanto bella e affascinante, ma incapace di concedersi la pace. Betlemme diventa sempre più povera ed è ormai ridotta a una grande prigione, racconta suor Benetello. «In 26 anni non avevo mai visto una situazione così tragica».


«Scriva che vogliamo stare tra la nostra gente di Betlemme, specialmente tra le mamme e i bambini, come la Vergine Maria, con il suo stesso cuore». Suor Ileana Benetello, delle terziarie francescane elisabettine di Padova, mi raggiunge al telefono per apporre questa postilla alla nostra conversazione di un paio di giorni prima.

L’ho incontrata in casa di amici suoi, alle porte di Milano, dove transitava durante un soggiorno di riposo in Italia, trascorso in parte andando a far visita ai numerosi sostenitori e simpatizzanti del Caritas Baby Hospital di Betlemme, luogo in cui la religiosa opera da ormai 26 anni.

Padovana di stirpe ma toscana quanto a nascita, la giovane Ileana cresce in una famiglia contadina di impronta patriarcale, prima di quattro fratelli e sorelle. Impossibilitata ad andare oltre la scuola dell’obbligo in quanto femmina (il nonno, capo-famiglia, tramandava la consuetudine: studiano, se vogliono, solo i maschi), impara presto a fare la sarta e trova lavoro a Roma, come guardarobiera in un istituto dei Fratelli delle scuole cristiane. È lì che, a 14 anni, fa conoscenza con le suore elisabettine. A 17 entra in congregazione a Padova, a 20 emette i primi voti e riprende gli studi, diventando infermiera. Per qualche anno lavora come caposala nell’ospedale pubblico di Pordenone fino a quando, nel 1981, le chiedono di partire per Betlemme, dove sei anni prima la sua congregazione ha già mandato tre suore. Le religiose lavorano nell’ospedale pediatrico fondato dallo svizzero padre Ernst Schnydrig e sostenuto da un comitato elvetico-tedesco denominato Kinderhilfe Bethlehem. Partita con il vivo desiderio di andare in Terra Santa, ma piena di dubbi circa la propria capacità di adattamento a una realtà straniera, suor Ileana è oggi, a sessant’anni d’età, la veterana tra le sei suore (quattro italiane, una tedesca e un’ecuadoregna) del Caritas Baby Hospital ed è perciò testimone di un lungo fiume di sofferenze del popolo palestinese, in mezzo a cui vive e con il quale si immedesima.

Conversando abbiamo ripercorso il suo itinerario in Terra Santa. Racconta: «All’inizio, tra il 1981-82, ho frequentato un corso di ostetricia a Gerusalemme. Allora tutto era più facile. I palestinesi potevano muoversi liberamente in ogni parte della Terra Santa, anche se talvolta c’era il coprifuoco nei campi profughi. La gente poteva andare a lavorare e non c’erano kamikaze. Passata la luna di miele, dopo l’arrivo, ho cominciato ad avvertire le difficoltà. Con l’inglese appreso in un corso di alcuni mesi a Londra ho dovuto cimentarmi con lo studio della lingua araba. Ora sono in grado di utilizzarla nelle relazioni con la gente ma non la so scrivere. Confesso che il primo periodo è stato duro, ma mi ha aperto la mente e il cuore, rendendomi capace di incontrare le persone. Fino al 1989 ho sempre lavorato, da mattina a pomeriggio, fuori dall’ospedale, in villaggi distanti tra i 10 e i 15 chilometri da Betlemme, dove organizzavamo cliniche prenatali diurne con squadre composte da medico, infermiera, ostetrica e operatore sanitario. Quell’esperienza ha avuto successo e continua ancora in uno dei tre villaggi che seguivamo, Nahhalin, un agglomerato di duemila abitanti in cui abbiamo studiato la situazione di tutte le famiglie. Tuttora a Nahhalin conserviamo un centro sanitario rurale, anche se, con il peggiorare della situazione, non è stato possibile raggiungere l’obiettivo di rendere indipendente il villaggio dal punto di vista socio-sanitario».

La situazione a Betlemme e nei Territori Palestinesi è andata via via peggiorando dopo lo scoppio della prima (1987) e seconda intifada e la conseguente costruzione del «muro di sicurezza» dentro il quale, dal 2004, gli israeliani stanno isolando la città natale di Gesù e i suoi dintorni.

Vivere in Terra Santa e non guardare la guerra negli occhi è stato impossibile. Nella mente di suor Ileana si succedono i ricordi: «A volte i militari israeliani, alla caccia di qualche ricercato, lanciavano bombe lacrimogene. Un giorno mi trovavo in una stanza con una donna incinta al nono mese. Fuori il gas impregnava l’aria e io non avevo ossigeno né altro. Mi prese il terrore che potessero morire la donna o il bambino. Sbarrai porte e finestre e chiesi al Signore di salvarci. Quella volta andò bene. Penso anche al periodo della prima Guerra del Golfo (1991) con Israele in clima d’assedio sotto la minaccia dei missili iracheni. Rivedo i carri armati che vanno e vengono rombando notte e giorno intorno all’ospedale senza lasciarti riposare e spaventando i bambini che cercano riparo sotto il letto e riempiono i loro disegni di scene di guerra. Come dimenticare, poi i giorni tesi dell’assedio alla basilica della Natività nel 2002? O quando abbiamo dovuto ricoverare i bambini nel rifugio sotterraneo anche per lunghi periodi (fino a 40 giorni)?».

«Anni fa – prosegue suor Ileana – in ospedale trattavamo soprattutto bambini denutriti che necessitavano di un mese e oltre di degenza. Poi, mutando le patologie, si sono accorciate le degenze e, anno dopo anno, è aumentato il numero dei pazienti. Da 1.500 siamo arrivati progressivamente fino ai 4 mila ricoveri dello scorso anno. Il nostro è un ospedale di medicina pediatrica articolato in tre reparti. I primi due sono per pazienti da un mese ai 10-11 anni d’età affetti da malattie dell’apparato respiratorio e gastrointestinale, patologie cardiache o vizi cardiaci a volte anche inoperabili ed, infine, malattie genetiche ereditarie. Non abbiamo un reparto di chirurgia, ma disponiamo di una neonatologia con incubatrici per bambini prematuri. Nel 2000 siamo riusciti a dotarci di ventilatori polmonari e quindi i neonati possono anche essere intubati. In pratica possiamo parlare di una terapia semi-intensiva che deve fare i conti molte volte con la totale impossibilità di trasferire i piccoli pazienti in Israele, presso centri specializzati. Da quando è stata istituita nel 1993, è l’Autorità nazionale palestinese (Anp) la titolare di ogni competenza nei campi dell’istruzione e della sanità. Così i palestinesi hanno perso ogni diritto all’assicurazione sanitaria negli ospedali israeliani. Il che implica che se è necessario essere ricoverati in Israele bisogna pagare anche cifre esorbitanti. Vi sono interventi che costano dai 10 ai 30 mila dollari. Sono spese ingenti che talvolta, se non vi sono alternative e la famiglia è povera, copriamo noi come ospedale. Fino a qualche anno fa avevamo ottimi rapporti di collaborazione con vari ospedali israeliani. Dal 2000, però, una legge vieta ai cittadini di Israele di entrare a Betlemme e quindi anche i medici non possono più venire. Bisogna dire che l’Autorità palestinese non ha saputo organizzare una buona assistenza sanitaria pubblica. La corruzione diffusa ha impedito un utile impiego dei fondi versati, ad esempio, dall’Unione Europea. Gli ospedali governativi sono andati avanti in qualche modo. Il nostro ospedale pediatrico ha potuto contare sugli aiuti dall’estero».

Un cruccio grande angustia suor Ileana e le sue compagne: vedere Betlemme immiserirsi (la disoccupazione raggiunge il 40-50 per cento) e languire ingabbiata da quel mostro grigio che è il muro iniziato nel 2004. «Alto fino a 9 metri – spiega la suora – il muro impedisce ogni forma di vita normale, nell’intento di annullare l’identità di un popolo. Il muro avanza, sradica ulivi a migliaia e sottrae sorgenti alla popolazione palestinese. Ormai il nostro territorio è una grande prigione e chi vive a ridosso della barriera dice: “Non credevamo che oltre che toglierci la terra potessero privarci anche dell’aria e del cielo”. C’è gente nata a Gerusalemme che oggi da Betlemme non può più mettervi piede se non con permessi speciali ottenuti con grandi difficoltà e lunghe attese. Il passaggio da Betlemme a Gerusalemme per chi non ha, come noi suore, un passaporto straniero, è difficile. Vado di frequente a Gerusalemme e mi metto in coda con gli altri al valico pedonale. Alle 6 del mattino ci sono già 200-300 persone in fila davanti agli accessi dei percorsi obbligati che avviano ai posti di controllo. All’andata ci ritroviamo in 4-5 donne e gli uomini, che magari si sono alzati alle 3 o alle 4 del mattino, ci lasciano passare avanti. Si devono valicare cinque porte girevoli con vari controlli. Gli uomini palestinesi si ritrovano in camicia e pantaloni e senza scarpe. All’ultimo controllo, ogni volta, vengono rilevate elettronicamente le loro impronte digitali. Tutto questo avviene anche tra insulti. È doloroso. In 26 anni di vita a Betlemme non ho mai visto una situazione peggiore».

Il diffondersi di insediamenti israeliani nei Territori e il reticolo di strade riservate al transito dei coloni rendono sempre più ardui i contatti tra i villaggi rurali palestinesi e riducono le risorse dei contadini a cui vengono confiscate terre e distrutte coltivazioni. Vi sono ripercussioni anche sulla salute psichica e fisica. Spiega suor Ileana che le difficoltà di movimento inducono i villaggi a isolarsi: «In assenza di scambi, la gente ha ripreso a contrarre nozze tra consanguinei, con i conseguenti problemi e rischi di tare nella prole. Il matrimonio nella cultura musulmana è una cosa ovvia e sacra e i figli sono numerosi, anche fino a 10-15 (nelle famiglie cristiane, invece, in genere non superano i 3 o 4). I palestinesi musulmani combattono l’occupazione con la demografia, ma bisogna anche aggiungere che da quelle parti l’amore per la vita c’è ancora. I nostri medici constatano carenze alimentari, aumento di malattie leucemiche e cardiocircolatorie nei bambini, oltre che di cancro e di forme depressive. Bisognerebbe fare degli studi approfonditi, ma dev’esserci una correlazione tra queste patologie e lo stress causato dalla mancanza di libertà. Andrebbero anche analizzate le conseguenze dell’impiego di certi ordigni».

In ospedale le terziarie francescane elisabettine non si occupano di amministrazione, ma ricoprono il ruolo di caposala, curano l’animazione spirituale e l’accoglienza di numerosi gruppi di pellegrini che andando a visitare la basilica della Natività chiedono di conoscere direttamente anche l’esperienza del Caritas Baby Hospital. Nella cappella, che è un sottocentro della parrocchia francescana di Santa Caterina, ogni domenica viene celebrata la Messa in arabo a cui intervengono anche i fedeli dei dintorni dell’ospedale.

«Nel nostro piccolo – dice la suora – cerchiamo anche noi di aiutare i cristiani a resistere alla tentazione di emigrare. È uno stillicidio continuo. Solo nel 2003 ne sono partiti tremila. Prima se ne va il capofamiglia, che non appena può chiama a sé moglie e figli. Nel 2007 abbiamo perso in questo modo già due infermiere. Si tratta di aiutare le famiglie a inventarsi un lavoro o a pagare le spese ordinarie. Noi eroghiamo piccoli prestiti che tante volte non vengono nemmeno rimborsati. I cristiani non ce la fanno. Ormai in città sono scesi a 10 mila. Non riescono a immaginare un futuro per sé stessi e i propri figli. Il 90 per cento degli utenti del nostro ospedale è costituito da musulmani. Loro dimostrano maggior attaccamento alla loro terra e fanno di tutto per rimanere. È una differenza di attitudine che non so spiegare. Resta un punto di domanda anche per noi. Forse la fede non è profondamente radicata e la consapevolezza di essere “concittadini” del Salvatore non fa presa. Quando emigrano, i cristiani che posseggono dei terreni li mettono in vendita. I musulmani li comprano anche a prezzi maggiorati pur di averli. A questo scopo ricevono finanziamenti anche dai Paesi arabi. Fino ad oggi tra cristiani e musulmani a Betlemme c’è stata una buona convivenza. In particolare da noi, in ospedale, c’è un clima di pace che cerchiamo di incoraggiare in tutti i modi. Ad esempio, vietiamo ai bambini di portare con sé armi giocattolo. Si dice che in città stiano prendendo piede forme di persecuzione e intolleranza verso i cristiani. Personalmente non ne ho evidenza, ma può darsi che sia così».

«Sono contenta della vita che ho fatto – conclude la religiosa italiana -. Pensavo di stare poco tempo in Terra Santa e invece… Ringrazio il Signore che mi ha allargato mente e cuore e mi ha dato una grande libertà interiore. È bello essere laggiù, nonostante tutte le contraddizioni e le sofferenze che abbiamo passato. Credo che non ci farò mai l’abitudine. Ogni giorno è nuovo e tutto diventa un dono. E noi, come comunità elisabettina in Terra Santa, vorremmo essere una presenza di speranza e di pace, con la serenità e la gioia che il Signore ogni giorno ci dona nel servizio ai più piccoli».

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