Un Libano più lacerato che mai non riesce a darsi un presidente. L'elezione è stata rinviata oltre una decina di volte dal novembre scorso e riscadenziata per il 26 febbraio prossimo. Benché vi sia un diffuso consenso sulla persona del comandante in capo dell'esercito, il generale Michel Sleimane, maggioranza e opposizione continuano a essere in disaccordo sul meccanismo legale da mettere in atto per insediarlo nel palazzo presidenziale di Baabda. E sugli intricati equilibri politici interni pesano le ingerenze di altre potenze.
È notorio che la presidenza libanese sia sempre stata decisa da altri e che la Camera dei Deputati vota per una persona già designata in segreto.
«Equilibri» e regole a livello regionale imponevano un determinato presidente anche quando il Libano non affrontava una crisi tale da motivare ingerenze esterne per essere superata. I libanesi hanno pagato il prezzo dell’intromissione esterna della Francia (tra il 1920 e il 1943 e dal 1992 a oggi), degli Stati Uniti (dal 1955 al ’60 e dal ‘76 ai nostri giorni), dell’Egitto (fino agli anni Cinquanta del secolo scorso), della Siria (soprattutto dopo l’accordo di Taef del 1991) e, ultimamente, dell’Iran e dell’Arabia Saudita che si uniscono agli altri per ingerirsi, direttamente o indirettamente, negli affari libanesi.
Oggi il Libano è più lacerato che mai. Gli oppositori restano abbarbicati sulle proprie condizioni. Benché vi sia un diffuso consenso sulla persona del comandante in capo dell’esercito, il generale Michel Sleimane, maggioranza e opposizione continuano a essere in disaccordo sul meccanismo legale da mettere in atto per insediarlo nel palazzo presidenziale di Baabda.
L’opposizione, infatti, rimette sul tappeto la questione di un package-deal, di un pacchetto di misure volte a rafforzare le prerogative del presidente cristiano-maronita, accordando una particolare attenzione alla spartizione dei portafogli ministeriale (per garantire la partecipazione dei cristiani laddove si prendono le decisioni politiche e preservare il loro ruolo). Dal canto suo, invece, la maggioranza insiste sull’elezione immediata del presidente senza alcuna condizione preliminare, considerato che un rafforzamento delle prerogative presidenziali contraddirebbe lo spirito dell’accordo di Taëf (1989) e del Patto nazionale (un accordo non scritto che definisce il Libano come Paese dal «volto arabo» e ripartisce la funzione governativa e amministrativa in base all’importanza numerica delle grandi componenti sociali cristiane e islamiche).
Bisogna notare che gli emendamenti costituzionali introdotti nel 1990 hanno suggellato un riequilibrio delle forze a vantaggio della comunità sunnita. È difficile credere che oggi – mentre il Libano ha evitato a più riprese l’esplodere di una discordia sunnita-sciita latente e mentre la comunità cristiana è più che mai divisa – che le forze in campo a livello regionale, Siria compresa, decidano di rafforzare le prerogative del presidente cristiano.
Da ultimo, e sul piano di principio, tutte le parti libanesi hanno accettato le condizioni dell’accordo proposto dalla Lega araba: eleggere Michel Sleimane «immediatamente» e concordare la formazione di un governo d’unità nazionale nel quale il presidente della Repubblica ponderi attentamente ogni decisione e si cominci a lavorare per redigere una nuova legge elettorale.
Se Michel Sleimane un giorno verrà eletto, potrà giocare realmente un ruolo da arbitro e i ministri a lui collegati saranno in grado di far pendere la bilancia in favore di una parte o dell’altra.
Ma è nei dettagli che si nasconde l’insidia. Ciascuno interpreta a suo modo l’iniziativa araba. E così il segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa, deve sventare molte trappole per cercare di riconciliare gli inconciliabili a Beirut, dove l’elezione del capo dello Stato è stata rinviata ancora (dopo una decina di precedenti rinvii) al 26 febbraio.
Qualche domanda si impone: la missione Moussa è condannata al fallimento? Che possibilità ha la Lega Araba di riuscire laddove le diplomazie di molti Paesi hanno fallito?