In questo mese di marzo a Gerusalemme avverrà il passaggio di consegne tra il patriarca latino Michel Sabbah e il successore designato da tempo: l'arcivescovo Fouad Twal (67 anni) che lo affianca come coadiutore dal 2005. Giunto ormai ai 75 anni d'età il patriarca presenta le dimissioni al Papa e termina, in povertà, un episcopato iniziato nel 1988. Nella sua ultima lettera pastorale ai fedeli, datata primo marzo 2008 e resa pubblica nei giorni scorsi, Sabbah traccia una sorta di bilancio e delinea il cammino percorso e il profilo attuale della sua comunità, prima di affidarla al nuovo pastore.
(g.s.) – In questo mese di marzo a Gerusalemme avverrà il passaggio di consegne tra il patriarca latino Michel Sabbah e il successore designato da tempo: l’arcivescovo Fouad Twal (67 anni) che lo affianca come coadiutore dal 2005.
Giunto ormai ai 75 anni d’età il patriarca presenta le dimissioni al Papa in ossequio alle disposizioni del Codice di diritto canonico e si ritira a vita privata. Sabbah termina in povertà un episcopato iniziato nel 1988. «Personalmente feci ingresso al patriarcato senza soldi e termino il mio mandato senza soldi. Non possiedo un conto in banca. Non ho debiti verso nessuno e nessuno ha debiti verso di me», scrive nella sua ultima lettera pastorale ai fedeli.
Il testo, datato primo marzo 2008 e reso pubblico nei giorni scorsi, è una sorta di bilancio, in cui il padre di famiglia delinea il cammino percorso e il profilo attuale della sua comunità prima di affidarla al nuovo pastore.
La lettera, non breve, contiene molti spunti di interesse. Il sito web del patriarcato latino di Gerusalemme la mette a disposizione integralmente in versione araba, francese e inglese.
I sentimenti che vi dominano sono la gratitudine e la speranza. Virtù che nel testo non fanno ombra a un’osservazione realistica e disincantata della realtà della Terra Santa.
La gratitudine va a Dio e alle molte persone, di ogni rango e vocazione, che monsignor Sabbah ha incontrato, nella sua diocesi e nel mondo, in due decenni di ministero episcopale.
Tra i passaggi cruciali della sua esperienza di vescovo il patriarca menziona il sinodo delle comunità cattoliche della Terra Santa, iniziato nel 1993 e concluso nel 2000. Se non ha portato tutti i frutti sperati, osserva Sabbah, ha comunque introdotto qualcosa di nuovo nelle nostre diocesi: un piano pastorale comune, un consiglio pastorale e uno presbiterale di cui fanno parte rappresentanti di tutte le comunità cattoliche (latina, melchita, maronita, siriana, armena e caldea). Dal sinodo è nata anche l’assemblea degli ordinari cattolici di Terra Santa (che comprende i vescovi e il custode di Terra Santa).
Come è noto, il patriarcato latino estende la sua giurisdizione sui territori israeliano e palestinese, ma anche sulla Giordania. Proprio soffermandosi su quest’ultima porzione di diocesi Sabbah guarda avanti e menziona la fondazione della prima università cattolica nel Paese, «la cui prima pietra spero sia posata presto».
Con uno sguardo ai rapporti ecumenici con le altre Chiese cristiane presenti in Terra Santa, la lettera recita: «Se le nostre giurisdizioni ci impediscono di essere uniti, il nostro amore vicendevole può meritarci la grazia di comunicare nella verità e di diventare grazie ad esse un segno e una fonte di unità per i popoli della Terra Santa». Il patriarca annota che tra i patriarchi e i responsabili delle tredici chiese cristiane presenti a Gerusalemme vi sono incontri frequenti, praticamente mensili, attraverso i quali è stato possibile crescere nella fraternità e nell’aiuto reciproco. Per certi versi, a livello di vertici, c’è maggiore comunione di quanta ve ne sia ad altri livelli: «In taluni ambienti e per certe persone, laici o membri del clero, la comunità di appartenenza è diventata un elemento di separazione e una barriera tra i credenti. Talvolta prendono piede persino rivalità e antagonismi». Atteggiamenti tanto più controproducenti se si considera che, essendo una piccola minoranza, i cristiani dovrebbero far fronte comune.
D’altronde questa piccolezza, questa condizione di minoranza, dice la lettera pastorale, «ha un legame diretto con il mistero di Gesù su questa terra. Duemila anni fa, Gesù venne qui, ma i suoi apostoli, i suoi discepoli e i pochi fedeli che credettero in lui non costituirono che un piccolo gruppo. Oggi, dopo duemila anni, Gesù rimane nella stessa situazione di "non riconosciuto" nella sua terra».
Il messaggio di congedo di Sabbah non può eludere il tema del conflitto israelo-palestinese: «La nostra società vive un conflitto armato. È l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, ed è la rivendicazione da parte di Israele della sua sicurezza e del riconoscimento. Come tutti gli abitanti di questa terra, i cristiani, palestinesi e israeliani, sono parte in causa del conflitto. In nessun caso possono restare spettatori mentre gli altri pagano il prezzo di una libertà da recuperare e accettano i necessari sacrifici. Fare da spettatori significa mettersi ai margini, diventare estranei agli uomini e alle donne del proprio popolo, cosa che non corrisponde alla vocazione del cristiano».
In mezzo al conflitto il cristiano, che crede al comandamento dell’amore, scrive Sabbah, dovrà praticare la resistenza non violenta «capace di condurre entrambi i popoli a godere in modo uguale della loro libertà, sovranità e sicurezza». «Per resistere, ottenere giustizia e fare la pace, bisogna anche che la vittima non si lasci trasformare in oppressore o in terrorista» afferma il patriarca.
Oggi i cristiani emigrano dalla Terra Santa, ma non sono i soli. Partono anche musulmani ed ebrei, a causa di un conflitto che produce instabilità politica, economica e sociale in tutti i Paesi della regione. «In Paesi come il Libano e l’Iraq, il conflitto ha causato tragedie, sofferenze e prove che sorpassano quelle della Terra Santa».
I cristiani, d’altronde, «in tutto il Medio Oriente sono le prime vittime dei piani della politica internazionale che li ignora, o finge di ignorarli».
Molti altri argomenti vengono toccati dalla lettera, ma ci limitiamo a riprendere, in conclusione, alcuni passaggi del paragrafo sui rapporti tra cristiani e musulmani: «In seno alla popolazione civile, da secoli, la coesistenza e i rapporti di buon vicinato – in ambiti come gli studi, la cultura, gli affari, la politica, ecc – sono reali. Solo due campi restano chiusi: i dogmi e la famiglia, al punto che quando li si va a toccare la situazione si fa esplosiva (…) Il dialogo interreligioso non tratta degli aspetti dogmatici. Ha per tema le questioni sociali e per obbiettivo il favorire una coesistenza più piacevole e una migliore collaborazione». Ma certo le cose si complicano da quando sono apparsi sulla scena i movimenti religiosi estremisti musulmani che «credono che la soluzione a tutti i problemi stia nella rigorosa applicazione dell’Islam, come religione e come sistema di vita politica e sociale, all’intera società, ai musulmani e ai non musulmani. Davanti a questa corrente, la posizione cristiana è la seguente: in primo luogo dobbiamo unirci agli stessi musulmani (…) per fronteggiare insieme un estremismo che minaccia musulmani e cristiani insieme; in secondo luogo, se questi movimenti dovessero un giorno imporsi, resterà comunque un margine di dialogo anche con essi. Ma se il dialogo si rivelasse inutile, non resterà ai cristiani che una sola cosa da fare: non cedere alla paura, ma esigere il rispetto dei loro diritti di cittadini e proclamare da credenti la loro fede cristiana. Devono allo stesso tempo prepararsi a rendere testimonianza a Cristo, sia con una vita quotidiana difficile, sia anche sacrificando la propria vita».