Due piccoli passi sono stati registrati sul fronte della libertà religiosa nel Medio Oriente. Nel Qatar il 14 marzo si inaugura la prima chiesa cattolica dedicata a Nostra Signora del Rosario; nello stesso complesso sono in progetto altre cinque chiese per le altre confessioni cristiane. All”inaugurazione ha partecipato il prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, il cardinale Ivan Dias, e dal cappuccino svizzero mons. Paul Hinder, vicario apostolico d’Arabia. L’edificio sorge su un terreno vicino a Doha, donato dall’emiro Hamad bin Khalifa al Thani, che negli ultimi anni ha portato avanti una politica di dialogo interreligioso, instaurando nel 2002 i rapporti diplomatici con la Santa Sede.
La chiesa non ha una croce all’esterno né un campanile, ma ha il vantaggio di fornire un luogo di ritrovo per la comunità dei cattolici che conta circa 100 mila fedeli provenienti dal Sud-Est asiatico e dall’Occidente. L’evento ha suscitato varie polemiche negli ultimi mesi. Alcuni intellettuali musulmani si erano infatti opposti con fermezza alla costruzione. Un giornalista ha scritto di provare «ripugnanza» per questa notizia e che «la croce non dovrebbe essere innalzata nel cielo del Qatar, né le campane dovrebbero risuonare». L’ingegner Rashed al-Subaie ha sostenuto che i cristiani hanno il diritto di praticare la loro fede, ma non dovrebbero avere i permessi per costruire luoghi di culto. Sulla stessa linea l’avvocato ed ex ministro della Giustizia Najib al-Nuaimi. Questi ha enfatizzato che il Qatar è un Paese musulmano, «non laico», e ritiene che un referendum sia l’unico modo per assicurarsi che la chiesa sia socialmente accettabile. Voci moderate e di consenso si sono tuttavia alzate. Una di queste proveniva da Abdul-Hamid al-Ansari, ex preside della facoltà di legge islamica all’università del Qatar, che ha pubblicato articoli su diversi quotidiani dando il benvenuto alla chiesa cattolica a Doha: «I luoghi di culto sono un diritto umano fondamentale difeso dall’islam».
La seconda notizia positiva arriva dall’Egitto. La giustizia egiziana ha riconosciuto, il mese scorso, il diritto di tornare ad essere cristiani a dodici copti convertiti all’islam, autorizzandoli a scrivere «cristiano» sulla carta d’identità. Sulla carta d’identità dovrà però essere specificato che sono stati «temporaneamente musulmani» per evitare conseguenze giuridiche, in caso di matrimoni o nascite. «È una sentenza storica, rappresenta un cambiamento di mentalità dei giudici, è una vittoria delle fede in Egitto», dove la libertà di culto è garantita dall’articolo 46 della Costituzione, ha dichiarato un avvocato della difesa. Rimane problematica, invece, la registrazione ufficiale della conversione di musulmani al cristianesimo. Il 22 gennaio, nell’aula del tribunale del Cairo in cui si teneva il processo sul caso di Mohammed Hegazi, un convertito dall’islam al cristianesimo, era intervenuto l’avvocato Nagib Gebrael.
La predicazione e la conversione – ha esordito Gebrael – non sono crimini, ma diritti attinenti alla libertà di coscienza. Non ha potuto dire altro perché almeno cinquanta fanatici musulmani presenti in aula gli sono saltati addosso al grido di «merita anch’egli il castigo dell’apostasia perché difende un apostata». Vale a dire che merita la morte.
Quando, alla fine, le forze dell’ordine presenti in tribunale sono intervenute, il malcapitato aveva già ricevuto abbastanza di calci e pugni. L’avvocato vive ora sotto scorta per paura che qualche «pazzo» non decida di ucciderlo per questa sua bravata.