Un vertice dimezzato dalle molteplici assenze e che non ha prodotto, anche per questo motivo, sostanziali novità. È la lettura più immediata del summit della Lega araba tenutosi nella capitale siriana, Damasco, il 30 marzo. Un appuntamento disertato dalla metà dei 22 Paesi che compongono l'organizzazione, in particolare da coloro che accusano proprio il governo siriano di impedire una soluzione alla crisi politica libanese. Le divisioni esistenti tra i Paesi arabi e la consapevolezza di non poterle sanare in tempi brevi è stato non a caso il tema dominante dell'appuntamento multilaterale.
Un vertice dimezzato dalle molteplici assenze e che non ha prodotto, anche per questo motivo, sostanziali novità. È la lettura più immediata del summit della Lega araba tenutosi nella capitale siriana, Damasco, il 30 marzo. Un appuntamento disertato dalla metà dei 22 Paesi che compongono l’organizzazione, in particolare da coloro che accusano proprio il governo siriano di impedire una soluzione alla crisi politica libanese. Le divisioni esistenti tra i Paesi arabi e la consapevolezza di non poterle sanare in tempi brevi è stato non a caso il tema dominante del vertice, ancor più delle crisi che interessano la regione, dalla violenza in Iraq agli scontri tra palestinesi e israeliani e tra fazioni palestinesi alla guerra nel Darfur.
«Gli arabi non troveranno posto nel mondo di domani se non saranno uniti», ha sottolineato non a caso il leader libico Muammar Gheddafi. E nella stessa Dichiarazione finale del Vertice si legge: «Dobbiamo superare le divergenze tra Paesi arabi, mettere al primo posto gli interessi di tutta la nazione araba, affrontando i problemi senza subire pressioni esterne».
Le principali «pressioni esterne», secondo alcuni analisti derivano soprattutto dagli interessi nella regione dei due convitati di pietra del summit, Iran e Stati Uniti, la cui influenza sui Paesi arabi, in modi diversi, è evidente. Dagli Usa sia l’Iran che la Siria sono considerati nemici mortali, soprattutto a causa del loro sostegno alle fazioni armate palestinesi e per il loro coinvolgimento nella crisi politica libanese. A proposito della quale, peraltro, nessuna svolta è scaturita dal vertice a parte il sostegno agli sforzi negoziali del segretario generale della Lega araba Amr Moussa (così come nessun cenno è emerso sull’ipotesi di un dialogo tra Siria e Israele con la mediazione della Turchia).
I Paesi intervenuti si sono invece limitati a nominare il vicepresidente yemenita, Abde Rabbo Mansur, come responsabile dell’iniziativa di riconciliazione tra i partiti palestinesi di Hamas e Fatah, prima di chiedere «la fine dell’occupazione israeliana dei Territori palestinesi e dell’embargo su Gaza». Positivo, in ogni caso, il commento del segretario generale Moussa: «Si dice sempre che i vertici sono falliti o monchi, eppure ogni anno andiamo avanti e seguiamo un unico percorso, nonostante i problemi».
Riserve sul capitolo della Dichiarazione di Damasco riguardante l’Iraq sono state espresse dal governo iracheno, che ha chiesto modifiche al testo. «Chiediamo alla Lega Araba che confermi le posizioni già prese per il sostegno al governo dell’Iraq e non assuma una posizione neutrale nella Dichiarazione», ha dichiarato il ministro degli esteri Hoshiyar Zebari.
Di un chiaro fallimento del summit ha parlato il quotidiano israeliano Haaretz, secondo il quale il fiasco apre interrogativi sulla vitalità dell’iniziativa di pace araba – riferendosi alla proposta saudita, adottata al vertice della Lega a Beirut nel 2002 – di una normalizzazione fra Israele e i Paesi arabi in cambio della restituzione dei territori conquistati nel 1967. «Alla luce delle profonde divergenze che dividono i membri della Lega – si chiede il giornale – siamo certi che i Paesi che l’hanno approvata continueranno ad aderirvi? Bisogna ammettere che l’iniziativa è stata riconfermata in questo vertice. Ma questa volta sorgono timori che possano esservi cambiamenti ed emendamenti».
È ancora Haaretz a notare che l’assenza a Damasco di Paesi come Arabia Saudita, Egitto e Giordania traccia una linea fra il «club arabo» e il «club iraniano» e fa ricadere su piccoli gruppi di Paesi arabi l’onere di lavorare per risolvere la crisi libanese, le divisioni interne palestinesi e il conflitto israelo-palestinese.