Non hanno vita facile i quasi 200 mila lavoratori stranieri che l'economia israeliana ha attirato da varie parti del mondo per rimpiazzare la manodopera palestinese estromessa in occasione della prima intifada. Anche quando si tratta di immigrati con regolare permesso, subiscono spesso soprusi non adeguatamente perseguiti dai poteri dello Stato preposti ai controlli. Consideriamo il caso dei thailandesi, che in Israele vengono impiegati nel comparto agricolo. Secondo l'analisi di Kav LaOved, una delle organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti dei lavoratori meno tutelati, questo gruppo nazionale è particolarmente svantaggiato per una serie di ragioni.
Non hanno vita facile i quasi 200 mila lavoratori stranieri che l’economia israeliana ha attirato da varie parti del mondo per rimpiazzare la manodopera palestinese estromessa in occasione della prima intifada (la rivolta anti-israeliana del periodo 1987-1993). Anche quando si tratta di immigrati con regolare permesso, subiscono spesso soprusi non adeguatamente perseguiti dai poteri dello Stato preposti ai controlli (servizi ispettivi dei ministeri competenti, polizia e magistratura).
Consideriamo il caso dei thailandesi, che in Israele vengono impiegati essenzialmente nel comparto agricolo. Secondo l’analisi di Kav LaOved, una delle organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti dei lavoratori meno tutelati, questo gruppo nazionale è particolarmente svantaggiato per una serie di ragioni: il tipo di impiego relega i lavoratori lontano dalle grandi città dove i controlli sono più agevoli; la barriera linguistica è un ostacolo serio perché difficilmente gli emigrati thailandesi in Israele padroneggiano altre lingue; infine la dislocazione remota dei luoghi di lavoro e la mancanza di mezzi di trasporto limitano la loro capacità di spostamento.
Nel corso del 2007 agli uffici di Kav LaOved si sono rivolti numerosi thailandesi. In 147 hanno accettato di rispondere alle domande degli operatori sulle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti. Pur ammettendo che le loro vicende potrebbero non rappresentare l’esperienza della maggioranza, l’organizzazione attribuisce rilievo ai dati raccolti.
A rivolgersi agli organismi di tutela sono stati soprattutto lavoratori alle dipendenze di kibbutz e delle imprese agricole della regione di Arava, nella punta meridionale del Paele, poco a nord del centro balneare di Eilat.
Dalle testimonianze raccolte risulta anzitutto che le commissioni di intermediazione richieste dalle agenzie di reclutamento che istruiscono le pratiche per il viaggio e il rilascio del permesso di lavoro temporaneo in Israele – valido in genere per 5 anni – oscillano tra i 5.500 e i 12.500 dollari. La cifra è molto al di sopra di quanto stabilito dalle leggi israeliane: non più di 800 dollari per ciascun lavoratore. La quota dev’essere versata prima della partenza dalla Thailandia e per reperire il denaro la gente contrae prestiti a tassi usurari (dal 3 al 5 per cento mensile). La tariffa incassata viene suddivisa tra le agenzie thailandesi e quelle israeliane, ma non è raro il caso in cui anche il datore di lavoro percepisca una quota che va dai 1.000 ai 1.500 dollari.
Di anno in anno si innalza l’ammontare delle commissioni di intermediazione, mentre non aumentano affatto i salari. I lavoratori intervistati hanno dichiarato di percepire tra i 91 e i 108 shekel al giorno. La media oraria calcolata da Kav LaOved è di 12,8 shekel (pari a 2 euro e un quarto). Siamo al di sotto del minimo legale che nel 2007 era fissato in 19,95 shekel (3 euro e mezzo). Una violazione diffusa in tutto il Paese, denunciano i lavoratori thailandesi.
Kav LaOved osserva che i datori di lavoro falsificano i ruolini paga facendo risultare l’applicazione della paga minima nelle loro scritture contabili, le uniche su cui si basano gli eventuali controlli ispettivi del ministero del Lavoro. «Con nostro rincrescimento – commenta l’agenzia umanitaria – gli ispettori ministeriali si limitano a controllare la documentazione cartacea messa a disposizione dai datori di lavoro e non raccolgono le testimonianze dei lavoratori. Non sorprende, perciò, che la sistematica violazione delle norme sul salario minimo continui indisturbata».
Inutile dire che neppure gli straordinari vengono adeguatamente retribuiti. Secondo la legge per ogni ora aggiuntiva dovrebbe essere versato il minimo legale più una maggiorazione che oscilla tra il 25 e il 50 per cento. Nessuno degli intervistati, però, ha mai percepito più di 15 shekel.
Ma vi sono pratiche anche più odiose. Loro malgrado i lavoratori finiscono spesso per fungere da finanziatori per gli imprenditori che li sfruttano. Quando hanno problemi di liquidità, infatti, parecchi datori di lavoro non pagano i salari anche per diversi mesi. C’è chi ha dovuto attendere la paga anche cinque mesi e oltre, per poi vedersi restituire il dovuto solo a rate. Altra consuetudine in contrasto con la legge israeliana è quella di versare i salari, con il tramite delle stesse agenzie di reclutamento, su conti correnti intestati ai dipendenti presso sportelli bancari in Thailandia. In questo modo sia le agenzie sia gli imprenditori israeliani trattengono una parte del compenso a titolo di spese o ritardano i bonifici lucrando sugli interessi delle somme che nel frattempo restano depositate presso le loro banche.
Non è stata ancora estirpata, benché ormai sia sancita come reato penale, la pratica di sottrarre e trattenere il passaporto del lavoratore. Per i lavoratori agricoli è inoltre rarissimo veder rispettato il loro diritto alle ferie retribuite e alle indennità di malattia e di fine rapporto.
Ancora più censurabile, però, è la consuetudine di minacciare di rimpatrio i dipendenti che piantano grane o non soddisfano più le esigenze dell’azienda. Kav LaOved denuncia casi in cui braccianti thailandesi sono stati accompagnati all’aeroporto con qualche pretesto e indotti a fare check-in per imbarcarsi su un volo diretto verso casa. Talvolta ai malcapitati vien fatto credere che stanno per essere trasferiti in un’altra azienda all’interno di Israele. Vi sono persino casi in cui persone al soldo dei datori di lavoro si fingono agenti di polizia e prelevano i thailandesi con la forza, costringendoli a lasciare il Paese. Eppure mai nessuno di costoro è stato incriminato per sequestro di persona.
Questo rimpatrio illegittimo avviene in genere prima che scadano i cinque anni previsti dal permesso di soggiorno temporaneo. Il rimpatrio consente al datore di lavoro e alle agenzie di reclutamento di incassare nuove commissioni sulle pratiche del lavoratore che dalla Thailandia subentrerà a chi è stato allontanato. Quest’ultimo, invece, con il suo duro lavoro non sarà neppure riuscito a coprire tutto il debito contratto al momento di lasciare la sua terra in cerca di fortuna.