Complici le polemiche sulla Fiera del Libro di Torino, un fiume di parole viene speso in queste ore sui 60 anni di Israele. Con un dibattito incanalato nel solito stereotipo «viva Israele» o «abbasso Israele». Tre articoli interessanti tratti dai giornali del Medio Oriente ci aiutano invece a sviluppare qualche riflessione in più.
Complici le polemiche sulla Fiera del Libro di Torino, un fiume di parole viene speso in queste ore sui 60 anni di Israele. Con un dibattito incanalato nel solito stereotipo «viva Israele» o «abbasso Israele». Tre articoli interessanti tratti dai giornali del Medio Oriente ci aiutano invece a sviluppare qualche riflessione in più.
Innanzi tutto va segnalato Bradley Burston che – con il consueto coraggio, nel suo blog sul sito di Haaretz – propone un esame di coscienza che intitola in maniera molto cruda «60 anni di niente». Burston pone l’accento su come, sia nel bilancio degli ebrei sia in quello degli arabi, alla fine sia lo sguardo sulle proprie ferite a prevalere. Senza alcuno sguardo sul futuro. Un’analisi opinabile. Però ha certamente il pregio di fotografare con chiarezza uno stato d’animo diffuso nel Medio Oriente di oggi. Dieci anni fa – quando Israele celebrò i suoi 50 anni – nonostante tutti i limiti, c’era la convinzione che il processo di pace fosse irreversibile. «Un decennio di negoziati falliti e combattimenti inconcludenti – scrive l’opinonista di Haaretz – ci ha condotto in un desolato ground zero delle emozioni. Prima abbiamo perso la fiducia nel fatto che la pace potesse risolvere i nostri problemi. Poi abbiamo perso la fiducia nel potere della guerra di arrivare allo stesso risultato. Israeliani e palestinesi, entrambi, oggi viviamo una spaventosa perdita di ideali. Rivoluzione dopo rivoluzione oggi, dopo 60 anni, siamo al culmine del nostro orgoglio proprio nel momento in cui non abbiamo niente da offrire».
L’editoriale del quotidiano di Amman The Jordan Times ha, invece, il pregio di spiegare con chiarezza perché – sessant’anni dopo – il 1948 sia ancora «il problema». Ben più del 1967, l’anno della Guerra dei sei giorni. Perché è troppo facile bollare le manifestazioni sulla Naqba, la memoria araba della «catastrofe» del 1948, come negazioni del diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Certo, da parte araba sarebbe ora di smettere di alimentare tra i discendenti degli arabi che lasciarono le loro case a Jaffa o ad Haifa sessant’anni fa, l’illusione che un giorno potranno davvero farvi ritorno. Ma è altrettanto inaccettabile mettere come pre-condizione di ogni trattativa con i palestinesi l’idea che – di quella che sessant’anni fa, per centinaia di migliaia di arabi, fu comunque una tragedia – neppure si debba parlare. E rilanciare ogni affermazione di ogni leader palestinese che accenni al «diritto al ritorno» come la dimostrazione che gli arabi vogliono distruggere Israele. Ha ragione The Jordan Times: il 1948 continua a «incapsulare» il conflitto. E finché non si potrà parlarne andando oltre i riflessi condizionati, quest’area del mondo non potrà trovare la pace.
Infine su Arutz Sheva, l’agenzia vicina al movimento dei coloni, troviamo la notizia di un gesto assurdo: tra le tante celebrazioni che a Gerusalemme ogni anno scandiscono la festa dell’Indipendenza c’è anche una gara tra i giovani sulla conoscenza della Torah. Quest’anno, però, tra i partecipanti, c’è anche una diciassettenne cristiana che è arrivata in finale. Tanto è bastato a spingere Yosef Mendelevitch, figura di spicco degli ex Prigionieri di Sion (gli ebrei russi cui – sotto il regime sovietico – veniva impedito di emigrare in Israele) per disdire la sua presenza nel comitato d’onore. «Mi rifiuto – ha dichiarato – di sostenere un evento che i missionari cristiani vogliono prendere in ostaggio per perseguire i loro obiettivi». Non farà notizia come le bandiere di Israele bruciate. Ma anche questo è un atto grave di intolleranza.
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