Quando non si ha una patria in cui tornare, l'esilio può continuare anche dopo la morte. Per i palestinesi fuggiti all'estero dopo l'occupazione israeliana dei Territori, il sogno di essere sepolti nei villaggi in cui sono nati si ferma sulle rive del Giordano, in Libano o in Siria. Mentre chi ha scelto di ricostruirsi una vita in Vietnam o in Bulgaria riposa ora lontano da casa nella speranza che i figli riportino, un giorno, le spoglie dei padri in Palestina. La preoccupazione per il proprio luogo di sepoltura è diventata un'ossessione che Nasri Hajjaj ha scelto di raccontare nel documentario L'ombra dell'assenza.
Quando non si ha una patria in cui tornare, l’esilio può continuare anche dopo la morte. Per i palestinesi fuggiti all’estero dopo l’occupazione israeliana, il sogno di essere sepolti nei villaggi in cui sono nati si ferma sulle rive del Giordano, in Libano o in Siria. Mentre chi ha scelto di ricostruirsi una vita in Vietnam o in Bulgaria riposa ora lontano da casa nella speranza che i figli riportino, un giorno, le spoglie dei padri in Palestina.
La preoccupazione per il proprio luogo di sepoltura è diventata un’ossessione che Nasri Hajjaj ha scelto di raccontare ne L’ombra dell’assenza. Coprodotto dalla Tunisia, il documentario del regista palestinese, nato nel campo profughi di Ain el Hilweh, nel sud del Libano, è stato proiettato domenica 13 aprile a Milano, durante la diciottesima edizione del Festival del cinema africano d’Asia e America Latina. In questa vetrina per pellicole che ritraggono mondi diversi, ogni anno una sezione speciale è dedicata alla scoperta dei film arabi: dal Marocco alla Giordania, non mancano le occasioni per vedere con occhi nuovi il mondo che si affaccia sull’altra sponda del Mediterraneo.
Per descrivere il popolo palestinese le immagini di Hajjaj si soffermano sulle lapidi di cimiteri poco distanti dalla loro terra di origine, ma considerati pur sempre stranieri: da quello dei martiri di Beirut al villaggio di Shatila sconvolto dalla guerra civile libanese, fino alle colline dove si sono consumati gli scontri con le forze israeliane. Diventate un cimitero di soli numeri, in questi luoghi circondati da filo spinato e cartelli minacciosi, non è nemmeno possibile dare un volto e un nome a chi ha perso la vita durante i combattimenti. Il documentario, girato con pochi mezzi, trasmette la sensazione di impotenza con cui combattono ogni giorno gli abitanti dei campi profughi, stretti tra soprusi dell’esercito israeliano e leggi non scritte.
Come il regista, giunto a Gerusalemme all’età di 48 anni, parecchi palestinesi nati all’estero entrano per la prima volta in Palestina dopo molti anni. Vivono in una patria senza frontiere e parlano di diaspora del loro popolo. A differenza degli ebrei, a cui è consentito essere sepolti nella terra promessa anche se hanno vissuto all’estero, per i palestinesi nati entro i confini israeliani e poi emigrati lo spettro di non far più ritorno a casa è reale. Non esiste una legge che lo vieti esplicitamente, ma le autorità israeliane impediscono il rientro delle salme che desiderano ormai solo essere seppellite in quella che considerano l’unica patria. I semplici cittadini sono i più colpiti dalla barriera ideologica costruita da Israele mentre l’opinione pubblica internazionale assiste in diretta televisiva ai funerali di scomode eccezioni: da Ahmed Shukairy, primo leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, a Yasser Arafat, morto a Parigi nel 2004 e poi sepolto a Ramallah, nel mausoleo inaugurato a novembre del 2007.