Israele celebra tra poche settimane, esattamente il 14 maggio, il sessantesimo anniversario della fondazione dello Stato. Per moltissimi dentro e fuori Israele sarà una festa, una grande festa. Per altri, soprattutto per coloro che vivono nei Territori, sarà come gettare sale sulle ferite. A distanza di tanti anni la strada della pace sembra più che mai lontana: Israele occupa militarmente la Cisgiordania, Gaza è in fiamme (ai primi di marzo i raid dell’esercito israeliano, in risposta ai razzi sulla cittadina di Sderot, hanno mietuto un centinaio di vittime, soprattutto civili; per non tacere della strage alla scuola rabbinica Mercaz HaRav di Gerusalemme, il 6 marzo), Hamas celebra i suoi martiri e perpetua l’odio verso il nemico sionista, Abu Mazen è più che mai debole… Sulle buone intenzioni del vertice di Annapolis, celebratosi alla fine di novembre negli Usa, sembra calata una pietra tombale.
Le celebrazioni per la nascita di uno Stato sono sempre l’occasione per ripensare alle ragioni fondanti. Nel 1948 la dichiarazione d’indipendenza indicava nella «libertà, nella giustizia e nella pace come predetto dai profeti», le radici della comune convivenza. Rilanciare questa visione, tornare al «coraggio della profezia», usare le armi della giustizia più che le armi della guerra, potrebbe essere il modo di celebrare un anniversario diversamente troppo segnato dal sangue.
«Solo mostrando un rispetto assoluto per la vita umana – ha sottolineato il Papa commentando l’escalation di Gaza durante l’Angelus del 2 marzo scorso – fosse anche quella del nemico, si potrà sperare di dare un futuro di pace e di convivenza alle giovani generazioni di quei popoli che, entrambi, hanno le loro radici nella Terra Santa».