La fine del lungo vuoto di potere che ha paralizzato per 18 mesi la vita politica libanese, intrappolandola in minacciosi e violenti scontri tra l'opposizione e la maggioranza anti-siriana, si è materializzata ieri, quando a Beirut il Parlamento ha eletto alla presidenza della Repubblica il capo dell'esercito Michel Suleiman. Una scelta di compromesso, quella di Suleiman, già da tempo in predicato di assurgere alla massima carica dello Stato, ma anche una scelta a lungo bloccata da altri nodi, primo tra tutti la richiesta dell'opposizione, infine accolta in un più ampio quadro d'intesa la scorsa settimana nei colloqui di Doha mediati dal Qatar, di formare un esecutivo di unità nazionale.
La fine del lungo vuoto di potere che ha paralizzato per 18 mesi la vita politica libanese, intrappolandola in minacciosi e violenti scontri tra l’opposizione e la maggioranza anti-siriana, si è materializzata ieri, quando a Beirut il Parlamento ha eletto alla presidenza della Repubblica il capo dell’esercito Michel Suleiman. Una scelta di compromesso, quella di Suleiman, già da tempo in predicato di assurgere alla massima carica dello Stato, ma anche una scelta a lungo bloccata da altri nodi, primo tra tutti la richiesta dell’opposizione, infine accolta in un più ampio quadro d’intesa la scorsa settimana nei colloqui di Doha mediati dal Qatar, di formare un esecutivo di unità nazionale.
Suleiman, 59enne cristiano maronita, eletto con 118 voti su 127, è l’uomo che avrà il compito di riunire le diverse anime del Paese dei cedri, coagulando esigenze apparse negli ultimi mesi inconciliabili al punto da far temere il tracollo nelle sembianze di una nuova drammatica guerra civile. Il suo discorso di investitura, a tal proposito, è stato esemplare nel suo intento di conciliare le pretese di Hezbollah, lodandone financo la sua «esperienza di resistenza» in difesa del Libano meridionale, e quelle della maggioranza antisiriana, sostenendo, ad esempio, da subito la collaborazione con il tribunale internazionale che indaga sull’assassinio dell’ex premier Rafic Hariri, avvenuto il 14 febbraio 2005.
Ha parlato di una «nuova fase», Suleiman, sollecitando la stessa popolazione a guardare al futuro e a «riattivare le istituzioni del Libano per il bene della patria», in modo da «preservare l’unità nazionale». A Hezbollah il neo-presidente ha chiesto di «non usare più le sue armi nei conflitti interni». Quelle armi che non più di due settimane fa avevano contribuito alla presa di Beirut ovest da parte del movimento sciita, causando la morte di oltre 80 persone.
Hezbollah – questa una delle incognite maggiori per il futuro – si è sempre rifiutata di disarmare le sue milizie. E il suo principale «sponsor», la Siria, è accusata da più parti dell’assassinio di Hariri. A questo proposito, però, Suleiman ha sollecitato proprio l’apertura di relazioni diplomatiche con Damasco. Uno snodo, quello dei rapporti con la Siria, che è visto dagli analisti come il punto cruciale per il Libano di domani, un rischio ma anche un’opportunità. Soprattutto ora che sono ripresi anche i negoziati tra Israele e la stessa Siria sulle Alture del Golan.
Favorevoli i commenti della stampa sul nuovo presidente. «L’elezione di Suleiman riunisce il mondo intero», ha scritto il quotidiano as-Safir. «Suleiman presidente tra l’unanimità araba e internazionale», ha notato a sua volta al-Diyar, mentre per il quotidiano filo-governativo an-Nahar l’ex capo delle forze armate «durante il suo discorso si è espresso in favore dell’equilibrio e dimostrerà che ciò distinguerà il suo mandato». Dello stesso segno anche i commenti internazionali, con gli elogi, tra gli altri, di Washington, Londra, Parigi, Roma e della Lega araba.
Già oggi Suleiman, dopo essersi insediato nel palazzo presidenziale di Baabda, sulle colline a sud-est di Beirut, ha cominciato le consultazioni per la formazione del nuovo governo di unità nazionale. Gli accordi raggiunti a Doha hanno l’obiettivo di far reggere il Paese almeno fino alle elezioni legislative del giugno 2009. E proprio in vista di quel voto Suleiman ha chiesto una nuova legge elettorale che si fondi «sul rispetto della volontà popolare». Un passaggio che a molti è parso un’ulteriore apertura a Hezbollah.
All’attuale maggioranza le intese assegnano sedici ministeri, tre dicasteri saranno invece appannaggio di uomini scelti dal presidente. Per la carica di primo ministro (al posto del dimissionario Fouad Siniora, la cui riconferma non è peraltro esclusa) il favorito è Saad Hariri, leader della maggioranza parlamentare, figlio ed erede politico del defunto Rafic. L’opposizione avrà in dote undici ministeri (e diritto di veto), quota significativa, ma è da vedere se l’impegno preso a Doha, di non far dimettere i propri ministri per evitare il crollo dell’esecutivo, sarà mantenuto. Il rischio è che Hezbollah usi quest’arma (oltre a quelle «convenzionali») come un ricatto per bloccare ogni provvedimento ritenuto non in linea con le proprie aspettative. In questo caso non basterà l’ottimismo di Suleiman a scacciare le ombre sul futuro del Libano.