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Franco Cardini. L’insegnamento delle crociate

14/07/2008  |  Milano
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Franco Cardini. L’insegnamento delle crociate
Il medievalista Franco Cardini.

Nel numero di maggio-giugno del bimestrale Terrasanta è pubblicata una lunga intervista a Franco Cardini, uno dei medievalisti più noti e stimati. A Roberto Beretta il professor Cardini ha parlato dei suoi legami con i francescani e con il francescanesimo, della necessità di un dialogo serio tra le religioni, della sua convinzione - contro ogni visione ideologica della storia - che dalle crociate (che non furono mai «guerre sante») si possa trarre l'insegnamento di un mondo più attento alle esigenze dell'altro. Vi proponiamo uno stralcio della conversazione.


Nel numero di maggio-giugno del bimestrale Terrasanta è pubblicata una lunga intervista a Franco Cardini, uno dei medioevalisti più noti e stimati. A Roberto Beretta il professor Cardini ha raccontato i suoi legami con i francescani e con il francescanesimo, la necessità di un dialogo serio tra le religioni, la convinzione – contro ogni visione ideologica della storia – che dalle crociate (che non furono mai «guerre sante») si possa trarre l’insegnamento di un mondo più attento alle esigenze dell’altro. Vi proponiamo uno stralcio della conversazione.

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«Sogno Gerusalemme da quando ragazzo, negli Anni Quaranta, assistevo agli intollerabili polpettoni hollywoodiani tipo David e Betsabea o Sansone e Dalila. A 17 anni lessi la Storia delle crociate del Michaud, in un’edizione illustrata da Gustave Doré. A ventuno cominciai quasi senza saperlo la mia tesi di laurea, sugli italiani e il movimento crociato nel XII secolo: era un’esercitazione affidatami dal mio indimenticabile Maestro, Ernesto Sestan, poi trasformata in una tesi che mi prese 4 anni di lavoro; cominciai quindi a studiare i resoconti dei pellegrini in Terra Santa e a occuparmi della topografia della "città vecchia"».

La Terra Santa e il Medio Oriente sono per Franco Cardini, uno dei nostri maggiori studiosi del Medio Evo e delle crociate, una sorta di «elemento naturale».

Professor Cardini, si ricorda il suo primo viaggio a Gerusalemme?
Mi capitò di viaggiare in Israele e in Palestina solo nel 1976, con una missione governativa di professori universitari italiani. Ero stato scelto per quel viaggio – ero forse il più giovane del gruppo – proprio perché considerato uno dei pochi studiosi italiani esperti di crociate e avrei dovuto illustrare ai miei colleghi qualcosa di quegli avvenimenti. Ricordo che mi fu chiesto di far da guida ai miei autorevoli colleghi attraverso la città vecchia, per una prima visita. Il pullman ci depositò alla porta di Giaffa verso l’ora di pranzo e ci aspettava alla porta di Damasco al tramonto. Condussi tutto il gruppo al Sion, quindi alla spianata del Tempio e poi al Santo Sepolcro attraverso il suq. Tutti si congratularono per la mia perfetta conoscenza della città e mi chiesero quante volte e quanto a lungo ci fossi stato. Era la prima volta che ci mettevo piede: mentendo, risposi che ci ero stato più volte e a lungo. Nell’occasione di quel viaggio conobbi due personaggi straordinari: Joshua Prawer, grande medievista israeliano, con il quale ero già in contatto e che reputo uno dei miei Maestri (dopo Sestan e Jacques Le Goff); e Vittorio Dan Segre. Sempre in quell’occasione, in Galilea, soggiornai anche nel kibbutz «socialista» di Kefar Na’um. Un’esperienza indimenticabile».

Lei vanta lunga amicizia e stima con padre Michele Piccirillo, alfiere dell’archeologia cristiana nel Medio Oriente…
Avevo già incontrato rapidamente padre Piccirillo nel ’76; ebbi modo di frequentarlo meglio negli anni Ottanta, quando lavorai più estati con lui al Monte Nebo, in Giordania, dove Piccirillo ha sistemato una collezione impressionante di tappeti musivi da lui scoperti e ha restaurato l’antica basilica cristiana dedicata a Mosé, che secondo la tradizione chiuse su quell’altura gli occhi, dopo aver contemplato la Terra Promessa (dal Nebo si gode una vista splendida del punto nel quale il Giordano si getta nel Mar Morto). Grazie a Piccirillo ebbi anche la gioia di conoscere padre Bellarmino Bagatti (una delle figure più eminenti dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme – ndr) già ammalato e molto anziano ma sempre lucidissimo. Quel che il mondo, e specialmente i cristiani, gli ebrei e i musulmani, debbono a personaggi come Bagatti e Piccirillo, è difficile da dire in sintesi.

Qual è, secondo lei, il «segno» più straordinario lasciato dal cristianesimo nelle pietre della Terra Santa?
La Terra Santa è il luogo nel quale il Divino ha segnato profondamente la Storia, facendovi irruzione. Dal convento di Santa Caterina sul Sinai ad Hebron dove sorge la moschea dei sepolcri dei Patriarchi, al Monte Moriah di Abramo (dove sorgeva il Tempio e ora le due grandi moschee «della Roccia» e di al-Aqsa) fino alla basilica del Santo Sepolcro, al Monte degli Ulivi dell’Ascensione, al Tabor, a Nazaret con i suoi luoghi mariani e al Lago di Galilea e al Monte delle Beatitudini, tutta la Terra Santa porta nelle sue pietre il segno, la memoria della Redenzione: cioè del dialogo tra Dio e l’uomo e del cammino dell’uomo verso la salvezza. Solo perché vivono nella sua luce e calpestano le sue pietre gli ebrei, i cristiani e i musulmani dovrebbero amarsi davvero come fratelli: resto ancora incredulo che accada il contrario.

Il suo primo libro, nel 1971, riguardava le crociate, su cui lei ha contribuito a cambiare la mentalità corrente, smentendo la «leggenda nera» su quei «pellegrinaggi armati»…
Ho sempre sostenuto che le crociate – la cui «ideologia», come qualcuno oggi ama chiamarla, mutò profondamente e più volte tuttavia dall’XI al XVIII secolo, quando andò svanendo – non furono mai «guerre sante» e tanto meno guerre «di religione», tese a convertire o a sterminare il nemico. La posta era il possesso dei Luoghi Santi, cui si aggiungevano vari obiettivi di natura politica ed economica. Il problema semmai è che, tra XI e XVIII secolo, quelle guerre erano combattute da homines religiosi, che vedevano ogni aspetto della loro vita – guerra compresa – come permeato dal Sacro. Ciò è valido nella presa di Gerusalemme del 1099 non meno che nella difesa di Vienna nel 1683: e da entrambe le parti. Ma ciò, nonostante la durezza dei tempi e i molti episodi di orribile violenza, non escludeva l’umanità, la comprensione, il rispetto, l’amicizia. Le crociate non erano né guerre totali, né guerre ideologiche: dimensioni queste inventate entrambi alla fine del XVIII secolo e proprie della «mistificazione del Sacro» caratteristica della cultura laica moderna.

Ha scritto che sono state proprio le crociate ad aver fatto di Gerusalemme una «città aperta».
Non che i crociati ci andassero piano. Nel luglio 1099, quando i guerrieri e i pellegrini occidentali entrarono in Gerusalemme, vi sterminarono letteralmente la popolazione musulmana ed ebrea. Fu una fortuna che il governatore califfale avesse poco prima espulsi i cristiani orientali dalla città (un po’ perché non se ne fidava, ma forse anche per non metterli nella condizione di dover scegliere tra combattere contro i loro amici e conterranei di sempre o contro dei forestieri che erano comunque loro correligionari): i crociati non avrebbero saputo forse nemmeno distinguerli dagli altri. Anche in seguito, in Gerusalemme per tutta la durata del regno crociato i non cristiani non potevano soggiornare, e nel regno vigeva una specie di apartheid. Nonostante questo, i crociati finirono con il creare una specie di «società coloniale» ante litteram, finirono con l’integrarsi in qualche misura perlomeno con il milieu cristiano-orientale, soprattutto con gli armeni (allora molto numerosi), e con lo stabilire con il circostante ambiente musulmano una specie di convivenza che permetteva scambi commerciali e culturali e perfino il nascere di varie forme di simpatia e d’amicizia.

Secondo lei, che cosa di quel modello potrebbe ancora funzionare?
La ricerca della Verità, la certezza intima di possederla (qualcosa che solo la fede può dare) e al tempo stesso la consapevolezza dell’imperscrutabilità dei disegni divini, quindi il rispetto per la fede altrui. Quel che induceva i Templari, in pieno XII secolo, a riservare un angolo della loro sede gerosolimitana (ch’era la moschea di al-Aqsa) agli amici musulmani che venivano a trovarli, affinché potessero raccogliersi in preghiera secondo il loro credo. È quanto ci narra un principe siriano, Usama ibn-Munqidh. È l’atteggiamento che credo descritto esattamente nel De pace fidei di Nicola Cusano, che costituisce per me l’ottimo e massimo modello di come si debba vivere la fede cattolica.

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