Nel monastero etiope situato su uno dei tetti del Santo Sepolcro a Gerusalemme vi è un ulivo dotato di uno statuto di santità: secondo la tradizione etiopica è l’albero in cui era impigliato l’ariete che Abramo sacrificò al posto del figlio Isacco (Gen 22,13). Niente di bizzarro in quest’identificazione: in vari commentari sia ebraici che cristiani il monte del sacrificio corrisponde a Gerusalemme, e in tutta la tradizione cristiana quell’ariete prigioniero del legno e immolato è figura dell’Agnello di Dio inchiodato alla croce. Un mosaico nel Calvario latino evoca questa allegoria. A pochi metri dal luogo della croce è così stata posta la memoria della sua anticipazione.
Poche centinaia di metri, ed ecco nella parte bassa del monastero armeno una piccola chiesa costruita sul luogo ove la tradizione di lì pone la casa del sommo sacerdote Anna. Accanto ad essa un ulivo, al quale sarebbe stato legato Gesù mentre attendeva di essere interrogato (Gv 18,12-13).
Alcuni chilometri più in là, nella parte ebraica della città vi è un antico monastero dall’aspetto di fortezza oggi appartenente alla chiesa ortodossa; tutt’attorno vi è un vasto oliveto incorporato in un grande parco pubblico. Il monastero viene detto «della croce» perché precisamente dagli ulivi circostanti sarebbe stato ricavato il legno della croce. I vecchi ricordano ancora un’antica abitudine di pellegrinaggio in quel luogo.
Non si pensi tuttavia che l’ulivo sia connesso all’idea del supplizio e della morte. Al contrario: l’ulivo è una delle piante più tipiche della Terra Santa, assieme al fico e alla vite cui si potrebbe aggiungere la palma nella depressione del Mar Morto. Tutte piante fruttifere, segno di benedizione e di prosperità e oggetto di simbologie gioiose. L’ulivo, in particolare, è pianta che non muore mai ma rinasce continuamente da sempre nuove radici. Il suo olio in passato era offerto nelle libazioni e usato per l’unzione sacerdotale e regale, due eventi riassunti nella persona di Gesù, il Cristo, l’Unto. Dono prezioso ricevuto e donato, esso è comunione con Dio, quindi santità e gioia: «olio di letizia», lo chiama il salmo 45. La tradizione cristiana lo metterà in connessione con lo Spirito Santo, unione del cielo con la terra e dei fratelli tra loro. Quando in talune liturgie esso viene posto sulle persone con la sobrietà propria del gesto simbolico, il pensiero non può non correre alla grande unzione di benedizione e di vita di cui canta il salmo 133. Nella parabola del buon samaritano tutto il primo millennio ha visto Gesù chino sull’uomo ferito portando olio (e vino, latore di significati propri): l’Unto unge le nostre piaghe con lo Spirito vivificatore, le accarezza con il suo amore, la sua consolazione, la sua dolcezza. Spesso gli autori antichi hanno giocato su una consonanza di radici in greco fra olio e misericordia: la misericordia di Dio, larga come l’elemento profumato di cui condiamo i nostri cibi, che si diffonde e ricopre ogni cosa. L’olio serve inoltre a far luce: la luce prodotta da quelle lampade di terracotta di cui la Terra Santa è piena, la luce che era sempre accesa davanti alla Presenza ed è un altro degli attributi di Cristo.
Tutto ciò si concentra e si rivela con il massimo della pregnanza nel mistero della croce. Quanti hanno fissato quelle tradizioni negli ulivi di Gerusalemme forse si sono ricordati che Gesù ha preso la sua grande decisione di amore in un giardino di ulivi; certo avevano una vista profonda.