Un soldato israeliano spara alle gambe di un prigioniero palestinese bendato, mani legate dietro alla schiena e impossibilitato a muoversi. Il soldato è a pochi metri di distanza dal prigioniero inerme: imbraccia il fucile e spara un proiettile di gomma eseguendo l'ordine del suo comandante. La scena in questi giorni è on-line su molti siti Internet di informazione del mondo. E di fronte a tanta evidenza le autorità militari israeliane hanno aperto celermente un'inchiesta. Le preziose immagini non sono un caso fortuito, ma una nuova forma di auto-difesa che sta prendendo piede tra i palestinesi dei Territori, grazie a un'idea di B'Tselem, un centro israeliano di informazione per i diritti umani.
(c.g.) – Un soldato israeliano spara alle gambe di un prigioniero palestinese bendato, mani legate dietro alla schiena e impossibilitato a muoversi. Il soldato è a pochi metri di distanza dal prigioniero inerme: imbraccia il fucile, lo punta e spara un proiettile di gomma eseguendo l’ordine del suo comandante. La scena, palese nella sua ingiustizia, in questi giorni è on-line su molti siti Internet di informazione del mondo. E di fronte a tanta evidenza le autorità militari israeliane hanno aperto celermente un’inchiesta.
Le preziose immagini non sono però un caso fortuito, ma una nuova forma di auto-difesa che sta prendendo piede tra i palestinesi dei Territori. L’idea è di B’Tselem, centro israeliano di informazione per i diritti umani che si è inventato una campagna di comunicazione dal titolo Shooting back («Rispondi al fuoco», ma il titolo inglese gioca sui significati del verbo to shoot che si può tradurre con «sparare» ma anche con «riprendere», «filmare»). Nell’ultimo anno B’Tselem ha distribuito tra i palestinesi un centinaio di telecamere digitali, con la dichiarata finalità che venissero utilizzate per testimoniare eventuali atti di violenza da parte di coloni o di soldati.
Il ferimento in questione, in particolare, è avvenuto lo scorso 7 luglio a Na’alin, un villaggio della Cisgiordania dove Israele sta costruendo il muro divisorio e un gruppo di palestinesi stavano manifestando la loro contrarietà. Il video è stato girato da una ragazza palestinese di 14 anni, con una delle cento telecamere distribuite; la ragazza ha semplicemente sfruttato il punto di visuale di una finestra della sua casa, nel villaggio. Le riprese di Na’alim non sono però l’unico frutto della campagna di B’Tselem; dall’inizio dell’anno sono circa 15 le testimonianze video raccolte dagli attivisti del centro d’informazione israeliano. «L’esercito e la polizia hanno accolto con favore la nostra azione – spiega Oren Yakobovich, che ha animato il progetto -, perché in questo modo possono contare su documentazione video degli avvenimenti, e questo rende le indagini molto più corte e veloci. Dalla nostra esperienza, spesso alla testimonianza dei palestinesi viene dato meno peso di quella di un poliziotto o di un militare – spiega Yakobovich -. Così, se ci sono le immagini oltre alle parole, le cose cambiano. Abbiamo avuto i soldi per acquistare le telecamere grazie alla generosità di una organizzazione di ebrei americani , i cui membri sono rimasti choccati da una visita alla città di Hebron».
Proprio ad Hebron, il palestinese Rajah Abu Aisha tempo fa riuscì a filmare il suo vicino ebreo, Yifat Alkobi, mentre insultava pesantemente la moglie del primo, apostrofandola tra l’altro come sgualdrina. Nel villaggio di Sussya, nella parte Sud della Cisgiordania, Muna al-Nawaja, 24 anni, a giugno fu in grado di filmare con la telecamera di Shooting back un attacco armato ad alcuni suoi parenti. Una domenica pomeriggio quattro uomini, arrivati dalla strada degli insediamenti israeliani, con il viso coperto e armati di bastoni, aggredirono selvaggiamente due congiunti di 60 e 33 anni. Nawaja riuscì a filmare alcuni secondi decisivi dell’aggressione.
I palestinesi oggi sembrano aver capito lì importanza delle telecamere: «Ci sono palestinesi che mi chiamano per avere una telecamera da tenere con sé – spiega Yakobovich -. Con una telecamera sentono di essere più al sicuro e protetti. È una risposta che per noi vale più dei sassi o di qualsiasi arma. Quando hanno con sé una telecamera subiscono meno violenze, perché funziona come deterrente. Tanto che ci sono palestinesi che girano con telecamere rotte addosso. Solo per evitare che male intenzionati li avvicinino».