Mai una visita in Israele e nei Territori di un candidato alla Casa Bianca è stata così in grande stile. Logico, dunque, che la foto di Barack Obama con la kippah in testa domini oggi sulle prime pagine dei quotidiani della regione. Ci sono, però, alcuni aspetti interessanti di questa tappa a Gerusalemme rimasti ai margini e che vale invece la pena cogliere. Ci aiutano due articoli tra loro molto diversi, apparsi in queste ore in Israele e nei Territori.
Mai una visita in Israele e nei Territori di un candidato alla Casa Bianca è stata così in grande stile. Logico, dunque, che la foto di Barack Obama con la kippah in testa domini oggi sulle prime pagine dei quotidiani della regione. Ci sono, però, alcuni aspetti interessanti di questa tappa a Gerusalemme rimasti ai margini e che vale invece la pena cogliere. Ci aiutano due articoli tra loro molto diversi, apparsi in queste ore in Israele e nei Territori.
Il primo è una riflessione di Michal Radoshitzky, responsabile per le relazioni internazionali dell’«Iniziativa di Ginevra», la traccia di accordo «virtuale» tra israeliani e palestinesi sui due Stati elaborato nel 2003 da due team non governativi guidati da Yossi Beilin e Yasser Abed-Rabbo. In un articolo pubblicato su Yediot Ahronoth Radoshitzky pone una domanda interessante: tutti vengono qui a rassicurarci sul fatto che sono amici di Israele; ma che cosa vuole davvero dire essere amici di Israele? «Le frasi a effetto sul sostegno di Israele – scrive -, per importanti che possano essere, non ci avvicinano alla soluzione del conflitto. Per arrivare a un accordo con i palestinesi e il resto dei nostri vicini arabi, Israele ha bisogno di un amico vero in America. Qualcuno che ci aiuti ad agire davvero nel nostro interesse. Che ci incoraggi a passare dalla falsa illusione del conflitto da vincere alla percezione che qui si vince o si perde insieme. In un negoziato entrambe le parti devono poter vedere che ci guadagnano qualcosa. Israele avrà sicurezza solo quando i palestinesi avranno un orizzonte politico». Questo – conclude Radoshitzky – è del tutto mancato nel tipo di amicizia mostrata verso Israele da George W. Bush. E questo è l’atteggiamento di cui ci sarebbe bisogno da parte del prossimo inquilino alla Casa Bianca.
Della visita di Obama parla anche il sito del Palestinian Information Center, sito molto vicino ad Hamas. Con un commento dai toni facilmente immaginabili sulla «lobby ebraica» che controlla la politica americana. Però l’articolo merita comunque di essere letto. Perché fa un elenco interessante delle cose che Obama non ha fatto nella sua giornata a Gerusalemme. Due in particolare: non ha parlato della situazione a Gaza e della sua posizione rispetto al blocco. Ma – ancora di più, nonostante tutti i discorsi sui due Stati – non si è neanche azzardato a mettere piede sulla Spianata delle moschee. Non certo per ragioni di sicurezza: i suoi strateghi temevano – piuttosto – che una sua foto sotto la cupola di al-Aqsa sarebbe stato un assist per quei siti che, per via delle sue origini, lo accusano di essere un cripto-musulmano. Ciò nonostante, anche il sito degli islamisti conclude l’articolo con un suo singolare endorsement: «Sicuramente – è la conclusione – i sionisti americani sono soddisfatti della lingua di Obama. Ma non sono altrettanto sicuri rispetto alla sua mente e al suo cuore. Finora Obama si è impegnato a fondo per nascondere qualsiasi discrepanza tra la sua lingua e la sua coscienza. E questo è piaciuto agli israeliani. Comunque speriamo che sia lui il prossimo presidente degli Stati Uniti. Se anche non saprà contrapporsi a Israele, almeno sarà il male minore, dal momento che una presidenza McCain significherebbe altri quattro anni di politiche alla George W. Bush». Non ha voluto incontrarli. Ma alla fine anche gli uomini di Hamas hanno lanciato a Obama il loro segnale.
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