«Uno degli aspetti più deleteri del conflitto israeliano-palestinese è costituito dalla focalizzazione estremamente angusta del dibattito pubblico su una ristretta gamma di argomenti attinenti alla politica e alla sicurezza che viene di solito vista completamente avulsa dal contesto socioeconomico e civile quotidiano della società». L'osservazione del professor Sergio Della Pergola, studioso israeliano di demografia e statistica, è molto pertinente e spiega la ragione di un libro come il suo Israele e Palestina: la forza dei numeri. Volume prezioso, documentato quanto agile.
«Uno degli aspetti più deleteri del conflitto israeliano-palestinese è costituito dalla focalizzazione estremamente angusta del dibattito pubblico su una ristretta gamma di argomenti attinenti alla politica e alla sicurezza che viene di solito vista completamente avulsa dal contesto socioeconomico e civile quotidiano della società». L’osservazione del professor Sergio Della Pergola, studioso israeliano di demografia e statistica, è molto pertinente e, in fondo, spiega la ragione di un libro come il suo Israele e Palestina: la forza dei numeri.
Il volume è documentato quanto agile. Preziosa presenza nella libreria di chiunque dedichi alla Terra Santa e al Medio Oriente un’attenzione costante e uno sguardo desideroso di comprendere e andare a fondo delle questioni.
Articolato in nove capitoli – più le Conclusioni – il testo individua i precedenti storici e politici del conflitto israeliano-palestinese, delinea i contesti della demografia (territori, popolazioni e diaspore), confronta la demografia israeliana con quella palestinese, immagina i futuri possibili, disegna le prospettive demografiche della prima metà del secolo in corso, ne trae alcune considerazioni a carattere politico.
Questa fatica editoriale di Della Pergola attraverso i numeri consente di ancorare ogni ragionamento di ordine socio-politico alla concretezza oseremmo dire biologica degli organismi sociali che abitano la Palestina. In carenza di altri studi demografici scientificamente altrettanto attendibili, quest’opera rappresenta certamente un punto di riferimento sintetico da cui non prescindere.
L’Autore non nega che il suo approccio ai temi possa, ovviamente, essere influenzato dalla sua appartenenza alla componente ebraico-israeliana. Non viene meno, tuttavia, l’onestà intellettuale dello scienziato sociale che tratta l’oggetto delle sue ricerche con rispetto e la necessaria dose di distacco.
È del tutto impossibile dar conto, in poche righe, della dovizia di dati e informazioni forniti da questo libro. Ve ne offriamo solo qualche assaggio.
Il primo getta uno sguardo sulla demografia della Palestina negli ultimi 150 anni: «La curva dell’accrescimento demografico della Palestina si modificava sensibilmente nella seconda metà del XIX secolo, con l’arrivo delle prime correnti più sostanziose di immigrati ebrei, dall’Europa, dal Nord Africa, dallo Yemen e da altri paesi del Medio Oriente. Fra il 1800 e il 1890, la popolazione ebraica cresceva da 7.000 a 43.000 – numeri alquanto modesti ma ciononostante un incremento di oltre 6 volte. La popolazione cristiana era più che raddoppiata, da 22.000 a 57.000. La popolazione musulmana predominante passava da 246.000 a 423.000, un incremento del 76% (…) Se erano occorsi novant’anni per il raddoppio da un quarto a mezzo milione di abitanti, ne erano sufficienti quarantuno per raddoppiare a un milione nel 1931, solamente altri sedici per raggiungerei i due milioni nel 1947, e poi meno di ventotto per superare i 4 milioni e mezzo nel 1975, e meno di altri venticinque per superare i 9 milioni nel 2000. Nel 2007, la popolazione della Palestina, comprendente Israele, la Cisgiordania e Gaza, si avvicinava ai 10 milioni e mezzo di persone, ossia 38 volte di più rispetto al 1800. Tra il 1947, l’anno del piano di spartizione dell’Onu, e oggi, la popolazione totale della Palestina è cresciuta di oltre 5 volte» (p. 75).
Naturalmente non si può parlare di ebrei e palestinesi ignorandone l’esperienza di diaspora: «Nelle condizioni attuali del conflitto israeliano-palestinese – scrive Della Pergola -, le rispettive diaspore costituiscono un potenziale forse più virtuale che reale, ma comunque costantemente menzionato e cullato, di possibili immigrazioni, e dunque un elemento di grande peso nelle possibili stime del futuro corso della crescita della popolazione nella regione. Oltre 7 milioni e mezzo di ebrei e oltre 5 milioni di palestinesi vivono oggi fuori della Palestina. Ma al di là delle motivazioni a un ritorno delle rispettive madripatrie, le diaspore hanno rappresentato e continuano a rappresentare un potente fattore di mobilitazione di pubblico appoggio, di lobby politica e di risorse economiche sia all’interno dei rispettivi collettivi – quello ebraico e quello arabo – sia di fronte ad attori esterni nella comunità internazionale, come i governi dei diversi paesi, i mezzi di comunicazione di massa, le Nazioni Unite, o le organizzazioni non governative. Le rispettive diaspore così giocano e continueranno a giocare – se non direttamente, almeno indirettamente – un ruolo di primaria importanza nello sviluppo delle popolazioni israeliana e palestinese e del conflitto che le divide» (p. 85).
Della Pergola non ha difficoltà ad ammettere che «una delle grandi ironie nel contesto del conflitto fra ebrei e arabi in Israele e Palestina è la grande prossimità genetica fra queste due popolazioni» (p. 121). «Le più recenti ricerche sulla genetica delle popolazioni basate su confronti di campioni di DNA rivelano che gli ebrei sefarditi mediterranei e mediorientali, e quelli ashkenaziti di origini centro-est europee non solamente hanno origini comuni, ma condividono queste origini con le popolazioni arabe del Medio Oriente, e in particolare con i palestinesi. Tanta prossimità di origini permane a dispetto delle intense migrazioni internazionali, della separazione fisica durata centinaia di anni, e dei matrimoni prevalentemente endogamici all’interno di ciascuna comunità nel corso dei secoli. Alla luce di queste ricerche la matrice comune ebraico-araba appare più chiaramente in linea patrilineare che non in linea matrilineare. In altre parole mentre la quasi totalità delle popolazioni maschili di origine mediorientale, fra cui gli ebrei e gli arabi, possono essere ricondotte a un comune ancestore vissuto presumibilmente oltre tre o quattromila anni or sono, le origini materne sono più complesse ma riconducono comunque a un piccolo numero di donne fondatrici. È opportuno qui ricordare che nell’antichità delle popolazioni semitiche, compresi gli ebrei, l’attribuzione dell’identità dei discendenti avveniva in via patrilineare. Questa prassi si mantiene ancora oggi nella tradizione islamica, mentre l’ebraismo pssava successivamente, probabilmente nei primi secoli dell’era volgare a una attribuzione identitaria matrilineare.” (p. 122).
Concludiamo citando solo un altro brano, dedicato al simbolo più controverso del conflitto israelo-palestinese negli ultimi anni: «La “barriera di sicurezza” che Israele sta edificando fra Israele e i Territori palestinesi costituisce uno dei temi più scottanti di dissenso (…) La costruzione della barriera (…) ha conseguito gran parte del risultato sperato, ossia la riduzione di oltre l’80% degli attacchi terroristici compiuti a partire dalla Cisgiordania contro obiettivi in Israele. Ma una funzione non meno importante della barriera è quella educativa, nel senso che l’ostacolo fisico segnala ai gruppi estremisti in campo sia israeliano sia palestinese che il territorio della Palestina storica ha due padroni e non uno, e il compromesso territoriale è inevitabile. La funzione difensiva della barriera verrebbe a cessare completamente, e questa potrebbe essere facilmente abbattuta il giorno in cui vi fosse una pace strabile fra le due parti» (p. 201s.).