Garages, seminterrati, capannoni, palestre: questi sono i luoghi in cui i musulmani in Italia si ritrovano a pregare. Non sono moschee, ma appunto sale di preghiera, luoghi d’incontro, sedi di centri e associazioni islamiche ricavate alla meglio in luoghi spesso inadatti, poco dignitosi, marginali. Quando si affaccia la prospettiva di una sistemazione meno provvisoria e più ufficiale, cominciano i problemi, alcuni da parte degli abitanti della zona, spaventati dall’integralismo, sospettosi verso una nuova e inquietante presenza, preoccupati di non sempre infondati problemi di affollamento, deprezzamento degli immobili, degrado del quartiere… Altri da parte delle comunità islamiche stesse, divise e in concorrenza tra loro, poco trasparenti nella gestione delle risorse, scarsamente inserite nel tessuto sociale della zona.
Una delle obiezioni più ricorrenti riguarda la questione della reciprocità. Si sa che nei Paesi musulmani non è facile costruire una chiesa, in taluni è addirittura impossibile. Dal punto di vista giuridico ed etico è un argomento che non tiene: se un diritto va garantito non può essere oggetto di baratto. Tanto più che i musulmani che vivono qui hanno ben poche responsabilità riguardo alla politica interna dei loro Paesi d’origine. Eppure il tema della reciprocità, che va respinto quando sia mero pretesto per non concedere quanto è dovuto, ha un altro possibile senso e valore che non dovrebbe andare perduto. Trovandosi a vivere come minoranza religiosa all’interno di Paesi laici e secolarizzati, comunque tradizionalmente di confessione diversa dalla loro, i musulmani d’Occidente avrebbero l’opportunità di riconsiderare i rapporti tra Stato e religione, ancorati nelle loro terre d’origine a una visione spesso incompatibile coi valori del pluralismo e della democrazia. Vederli impegnati nella rivendicazione dei loro diritti non deve stupirci né imbarazzarci, ma attendiamo da loro almeno qualche dimostrazione di una diversa consapevolezza e partecipazione nei confronti delle difficoltà che varie minoranze religiose affrontano in terra d’islam. Se davvero apprezzano la libertà e le garanzie di cui godono dalle nostre parti, non potranno restare ancora a lungo indifferenti rispetto al dramma di chi ancora si vede trattato da cittadino di seconda categoria in quanto non musulmano nei Paesi da dove essi provengono. Nessuna reciprocità nei fatti potrà scaturire senza una reciprocità nel comprendere e nel sentire problematiche comuni. Per questo è importante che soprattutto i musulmani nati qui, che si sentono cittadini italiani a tutti gli effetti, con gli onori e gli oneri che ne derivano, comincino a riflettere su questi temi. Ma non saranno aiutati a farlo se l’accesso ai propri diritti sarà mera merce di scambio
Vi sono le condizioni perché, dopo tanta ostilità e indifferenza reciproca, si possa inaugurare una nuova stagione nei rapporti tra comunità religiose. E qualcosa di significativo, del resto, sta già accadendo lungo percorsi simbolicamente molto significativi. Nell’ultimo romanzo dell’egiziano al-Aswani, Chicago, che parla appunto della diaspora araba nella grande città americana, non si tace del cardiochirurgo copto la cui carriera fu drasticamente bloccata al Cairo a causa della sua fede. Emigrato negli Usa, gli accadde in seguito di dover operare al cuore proprio colui che in patria gli aveva sbarrato il cammino. Qualche tabù, dunque, comincia a cadere… Ma molto di più dovrebbero e potrebbero fare gli immigrati arabi, musulmani e cristiani, sopratutto quelli di seconda generazione, che rischiano di riprodurre nei loro atteggiamenti divisioni e sospetti semplicemente ereditati dai padri o, peggio, di disinteressarsi di quanto accade nei Paesi d’origine. Nel mondo globalizzato conflitti e sopraffazione devono interpellare la coscienza di tutti.