La vita «dura, durissima» dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza, lembo di terra che è diventato «una vera fabbrica di odio, di rancore, di sfiducia», è nei pensieri che accompagnano le giornate romane del patriarca latino di Gerusalemme. L'arcivescovo Fouad Twal mantiene «una pace interiore che porta a vivere con gioia e ottimismo» anche il conflitto che affligge la Terra Santa. Nel suo intervento nell'aula sinodale, il presule di origini giordane ha rivolto «un appello a favore della Terra Santa» e ha chiesto «più preghiere, più solidarietà e più pellegrinaggi».
La vita «dura, durissima» dei palestinesi di Cisgiordania e a Gaza, lembo di terra che è diventato «una vera fabbrica di odio, di rancore, di sfiducia» soprattutto per «una generazione di bambini che stanno crescendo chiusi in gabbia come maialini, respirando violenza e sporcizia fisica e morale» sono i pensieri che accompagnano le giornate romane del patriarca latino di Gerusalemme, l’arcivescovo Fouad Twal, che pure mantiene «una pace interiore che porta a vivere con gioia e ottimismo» anche il conflitto che affligge la Terra Santa. Tra i 253 vescovi presenti a Roma per il Sinodo sulla Parola, l’arcivescovo giordano subentrato lo scorso giugno a mons. Michel Sabbah ha rivolto in aula, in presenza del Papa, «un appello a favore della Terra Santa» e una richiesta di «più preghiere, più solidarietà e più pellegrinaggi» per una terra che rimarrà sempre «segnata dalla Croce di Cristo» ma anche «illuminata dalla Risurrezione». Una terra, rimarca, che conserva «non solo la storia, ma anche la geografia e la topografia della salvezza» e dove per questo «il gesto di leggere, di studiare e di meditare la Parola di Dio riceve un valore e una fecondità uniche».
Monsignor Twal, da diversi anni in Medio Oriente si discute sui rischi di una lettura «ideologica» della Bibbia.
Effettivamente il conflitto israelo-palestinese comporta delle difficoltà di comprensione di certi passi. In generale, i cristiani arabi hanno spesso difficoltà a leggere l’Antico Testamento non a causa della Parola di Dio in sé, ma delle interpretazioni politiche. Penso che due princìpi ci mettano al riparo da questi rischi: leggere la Parola alla luce di Cristo e ancorare l’interpretazione alla Chiesa. Qualsiasi interpretazione al di fuori della Chiesa è un’interpretazione pericolosa. È vero che c’è l’Alleanza con il popolo d’Israele, e noi la rispettiamo. Però non dimentichiamo che c’è la nuova alleanza con Gesù, senza limiti né frontiere. È il Signore che stringe con l’umanità questa nuova alleanza.
Da quali ambienti vengono maggiormente queste interpretazioni?
Non solo dalla Terra Santa ma anche dagli Stati Uniti, dove ci sono alcuni gruppi messianici che prendono la Bibbia alla lettera e vorrebbero applicarla tale e quale. Alcuni di loro, non tutti, sono disposti a giustificare guerra e violenza pur di dare la Terra Santa a un solo popolo, a prescindere da tutti gli altri popoli che pure abitano là da secoli. Nell’ultimo paragrafo dell’Instrumentum laboris del sinodo in corso si avanza la domanda se qualcuno non usi la Bibbia per diffondere l’antisemitismo: noi siamo intervenuti per dire che è tutto il contrario. Alcuni gruppi usano i testi della Bibbia per fare qualcosa contro gli altri: noi siamo per il primo comandamento, ovvero per l’Antica e per la Nuova Alleanza, per amare Dio e amare il prossimo. Gesù è morto per tutti e ha detto: «Attirerò tutti a me», mentre qualcuno vorrebbe favorire una lettura limitata a una razza, a un popolo e a un luogo. Noi abbiamo questa Alleanza di Dio che ama tutte le creature ed è morto per tutti quanti, e siamo felici di annunciare questo Vangelo.
Che segnali ha ricevuto in questi primi mesi dal suo insediamento dalle autorità israeliane? Come procede il rilascio dei visti al clero?
La situazione è sempre la stessa, e a volte ho paura che tutti quanti, sia gli arabi che gli israeliani che i cristiani si aspettino troppo da me. E io l’ho detto fin dal primo giorno: sul mio stemma c’è scritto Paratum cor meum, il mio cuore è pronto a tutto e ben disposto verso tutti, conoscendo i miei limiti e sapendo che non farò miracoli, però con una disposizione totale di voler collaborare con tutti, sia con politici che con i religiosi che con i laici, procedendo tutti insieme mano nella mano, sapendo che possiamo ottenere qualcosa ma che non possiamo cambiare il mondo. Sono lì per amare, per seguire, per pregare.
Lei è il pastore di un piccolo gregge assai variopinto: ci sono arabi palestinesi, cattolici di lingua ebraica, israeliani russi, fedeli europei…
Ho tre o quattro gruppi diversi di fronte a me, e non tutti condividono la stessa sensibilità nei riguardi del conflitto. Ci vuole la prudenza massima nei miei discorsi. Penso ciascuna frase fino alle virgole, per accontentare tutti e non sempre ci riesco: faremo il possibile cercando di rispettare la verità, avendo il coraggio di dire la verità con calma e con rispetto. Dobbiamo muoverci con tutta la prudenza e l’amore sapendo che voglio il bene di tutti, e sapendo che non posso accontentare tutti. Al di là di questo, per evitare questo disagio e aggirare questo ostacolo penso che la cosa migliore sia enfatizzare l’aspetto spirituale anziché la lettura politica della realtà in cui viviamo. Anche se questo potrà non piacere a qualcuno.
Cosa può dirci della situazione dei cristiani nei Territori?
I Territori palestinesi sono ancora sotto occupazione con centinaia di check-point e posti di controllo: la vita è dura, durissima e il fatto di non vedere una soluzione, un futuro chiaro in questo presente così difficile peggiora le cose. E questo malgrado l’arrivo di tanti pellegrini, ai quali siamo molto grati. Ma a causa di motivi politici, economici, di ricongiungimento familiare in tanti continuano ad emigrare anche adesso: la nostra minoranza cristiana rimane minoranza.
Che cosa sa della parrocchia di Gaza?
Gaza è una catastrofe: non c’è altro modo di definirla. Gaza è una vera, bella fabbrica di odio, di rancore, di sfiducia. Se vogliamo ancora più violenza, continuiamo con questo modo di fare: opprimiamo un intero popolo! Anche se alcuni «responsabili» possono scegliere un comportamento irresponsabile, deve essere chiaro che schiacciare un milione e mezzo di persone con questo atteggiamento non avrà altro risultato che alimentare l’odio e la violenza. E non credo che sia il modo migliore di portare la pace: né agli arabi né agli israeliani né agli europei… Al contrario: è il modo più sicuro per far aumentare l’odio, il rancore e la violenza. Penso soprattutto ai bambini: a questa generazione di piccoli che stanno crescendo senza scuola, senza cibo… come maialini chiusi in gabbia, cresciuti in questa atmosfera sporca da ogni punto di vista, e siamo noi tutti che stiamo preparando con questa indifferenza una generazione che ama la violenza perché è stata allevata senza nessun altro mezzo che la violenza.
Non pensa che una riunificazione tra Hamas e Fatah potrebbe sbloccare le cose?
Questa divisione non è altro che una crisi interna all’interno della grande crisi della questione palestinese che da 60 anni non ha trovato alcuna soluzione. Questa è una piccola crisi, del tutto normale, ce ne saranno altre. Ma il problema non è questo: sarebbe come focalizzarsi su un albero che brucia e dimenticare tutta la foresta dietro: è vero che l’albero brucia ma tutta la foresta brucia. Mentre tra Fatah e Hamas io sono sicuro che una soluzione si troverà: tutti sono arabi, tutti sono musulmani, tutti vogliono il bene dei palestinesi e sono certo che un giorno saranno riuniti. D’altronde ci sono trattative in corso con la Giordania, con l’Egitto… Io credo che tutta la grande situazione alla quale non si vede via d’uscita fino a questo momento sia molto peggio della loro divisione.
Che cosa si aspetta dal nuovo governo israeliano?
Tutti i nostri auguri alla signora Livni, a Barak, a Abbas e compagnia bella… contino sulla nostra amicizia e preghiera. Ma fino ad oggi quel che abbiamo visto sono state più difficoltà che gesti positivi e non sappiamo se avranno il coraggio di fare gesti coraggiosi, anche a rischio di perdere la popolarità pur di arrivare alla pace. Riceviamo tanti aiuti, siamo grati. Ma l’aiuto di cui abbiamo tanto bisogno e non arriva si chiama pace.
Si parla spesso della «vocazione di sofferenza» dei cristiani del Medio Oriente. Lei condivide questa convinzione?
Posso dire per esperienza personale che uno non può vivere in Terra Santa, amare la Terra Santa e lavorare in Terra Santa senza la Croce. Bisogna pensare che le stradine strette di Gerusalemme dove il Signore è caduto per portare la sua croce sono le stesse che noi attraversiamo oggi: camminando per queste stradine non possiamo dimenticare questa dimensione della Croce. Dove c’è amore, c’è sofferenza. Se amiamo la nostra missione, il nostro popolo e la nostra città dobbiamo pagare un prezzo: l’amore e la Croce. Però parlando della croce della Terra Santa non dimentichiamo anche un’altra dimensione: c’è la risurrezione, una gioia, una speranza, una giustizia che arriverà un giorno. Quel che ci consola è la rassicurazione di Gesù: «Vi do la mia pace». Non si tratta della pace dei politici, dei militari, ma è la sua pace, ovvero una convinzione interna che un giorno avremo la vittoria sul male, sulla violenza e sulla guerra. Ed è questa pace interiore che ci porta a vivere con gioia, con ottimismo, e ad accogliere tutti quanti: perché sappiamo che la nostra gioia non viene dalle circostanze geopolitiche che viviamo che sono drammatiche ma viene dalla nostra comunione con Dio, con la Chiesa universale come stiamo sperimentando in questi giorni. E la vita rimane bella!