Non solo Al Jazeera, ma un universo fatto di oltre 450 canali televisivi in lingua araba che trasmettono intrattenimento, videoclip musicali, programmi educativi e religiosi, news, soap opera e persino reality show con tanto di voto via web e sms. A dispetto di un’idea a senso unico maturata nel mondo occidentale, la realtà degli schermi televisivi arabi parla di un mondo ben più complesso, dove le immagini – e, dunque, le idee, i valori – che circolano attraverso il tubo catodico sono variegate, plurali, persino contraddittorie.
Prima dell’11 settembre 2001 della televisione araba nulla si sapeva: come se nemmeno esistesse; come se l’Egitto, durante gli anni Sessanta e Settanta, non fosse stato il terzo produttore al mondo, dopo Bollywood e Hollywood, di immagini cinematografiche. L’11 settembre invece ha prodotto uno choc anche culturale: gli arabi da «beduini nel deserto» si sono trasformati in pericolosi tagliagola e, al contempo, sapientemente esperti nell’uso dei mass media. E si è passati da uno stereotipo a un altro.
Con l’attentato alle Torri gemelle, il mondo occidentale ha fatto propri due atteggiamenti, nei confronti del sistema dei media arabi: innanzitutto la sorpresa di essersi improvvisamente trovato di fronte a un mondo arabo maturo, capace di produrre ed elaborare le sue proprie immagini; e poi la condanna per questo stesso sistema, ritenuto colpevole di mobilitare all’odio e alla violenza anti-occidentale. Al Jazeera e Bin Laden, sono spesso state credute due facce di una stessa medaglia: da una parte, la tivù araba più famosa al mondo, «colpevole» di aver rotto il monopolio occidentale della rappresentazione dell’attualità via mass media; dall’altra, il volto più minaccioso al mondo che, attraverso questo stesso canale televisivo, diventava tutto d’un tratto l’unica immagine di tutta la tivù araba, l’unica possibile, quella dell’odio diretto contro l’Occidente e i suoi valori.
Se però, senza pregiudizi, vogliamo cercare di accostarci al mondo arabo contemporaneo, dobbiamo innanzitutto analizzarne il sistema dei mass media, per l’importanza che oggi la comunicazione riveste nel trasferimento della conoscenza e nella rappresentazione culturale.
Al Jazeera è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più complesso, la formazione di un maturo sistema di media arabi, di cui la rete del Qatar è senza dubbio la parte più avanzata: il suo lancio, nel 1996, ha rappresentato un punto di svolta, una vera e propria rivoluzione nel modo di fare informazione «all’araba». La tivù del Qatar ha inaugurato la modalità de «l’opinione e l’opinione contraria» (il motto di Al Jazeera), laddove tutti gli altri canali ragionavano in termini di osservanza dei protocolli politici, attenti a non offendere la triade patria-religione-famiglia che dettava le leggi del «permesso» e del «proibito» sugli schermi arabi. Oggi lo stile di Al Jazeera ha fissato uno standard al di sotto del quale è difficile scendere, ha dato dignità e professionalità all’informazione «all’araba»: eppure questa non è l’unica innovazione che hanno attraversato i media arabi negli ultimi anni.
Esiste un nutrito gruppo di canali televisivi che fa innovazione su molti generi, dall’intrattenimento ai programmi educativi alle soap opera. E da questi canali viene fuori un’immagine ben più complessa del fermo-immagine su Bin Laden, cristallizzato nell’immaginario occidentale. Si prendano ad esempio le soap opera (musalsalat, in arabo) del regista siriano Najdat Anzour. La sua «trilogia» sul terrorismo andata in onda negli ultimi Ramadan 2005-2006-2007 è capace da sola di smontare molte delle idee preconcette dell’Occidente sul mondo arabo. Al hurr al ayn («Le vergini del Paradiso», 2005) è la storia degli attentati del 2003 in Arabia Saudita che costarono la vita a molte famiglie arabe, come a riconoscere che il terrorismo non è solo una piaga dell’Occidente, ma spesso è all’interno del mondo arabo che colpisce in modo più violento; Al mariquona («I falsi credenti», 2006) sono episodi diversi, che affrontano la guerra in Iraq, l’Afghanistan post 11 settembre, con uno sguardo nuovo e sorprendente sui rapporti del mondo arabo con l’Occidente; Saqf al alam («Il tetto del mondo», 2007) tratta il delicato episodio della pubblicazione delle vignette satiriche contro il profeta Maometto ad opera dei giornali danesi, provando ad indicare come soluzione il dialogo fra le culture, rigettando sia le posizioni estreme di chi scatena la violenza per un evento che non comprende, sia la sordità di chi vuole liquidare il problema come un semplice fatto di «libertà d’espressione contro fanatismo». I lavori di Anzour sono la spia di un mondo arabo che si interroga forse molto più di quanto a volte si interroghi il mondo occidentale. Uno stereotipo ulteriore viene sfatato dal luogo d’origine di Anzour, da cui provengono tutte le musalsalat più interessanti degli ultimi anni: la Siria, paese spesso raccontato dai nostrani mass media con errori e imprecisioni, che andrebbe rivalutato attentamente nello scenario del Medio Oriente contemporaneo. Il fenomeno delle soap opera siriane, di grande qualità tecnica e con contenuti sociali, politici e di attualità, è uno dei più innovativi nella tivù araba di questi ultimi anni.
Una spia dell’importanza dell’industria della fiction siriana è data anche dalla scelta della seguitissima rete panaraba Mbc (a capitale saudita ma di stanza a Dubai) di doppiare le soap opera importate dalla Turchia in dialetto siriano. L’enorme successo, negli ultimi mesi, di musalsalat turche come Nour e Sanauat ad-diya («Gli anni della perdizione») doppiate in siriano testimonia l’ascesa, anche linguistica, della Siria nel panorama televisivo arabo, laddove fino a poco tempo fa erano l’Egitto e la varietà linguistica egiziana gli indiscussi padroni degli schermi arabi.
Un’altra nota interessante, sempre in termini di fiction televisiva, è la nascente industria irachena. Mentre in Occidente si parla di Iraq solo in termini di bombe, violenza e morti quotidiani, si assiste ad una rinascita delle arti, e anche della televisione, soprattutto fra gli iracheni che vivono fuori dal Paese, in Giordania o Siria. L’industria della fiction irachena, concentrata soprattutto fra i rifugiati iracheni a Damasco, sta crescendo sia per quantità che per qualità, evidentemente anche per l’effetto positivo della vicinanza con registi, attori, tecnici siriani di grande professionalità. Le ultime musalsalat irachene, in particolare quelle frutto della collaborazione fra il regista Hassan Hosni e lo sceneggiatore Hamid Al Maliki, affrontano temi come la guerra civile in Iraq, l’occupazione americana, il rapporto con l’Occidente, il significato di democrazia e indipendenza. Fobia Baghdad, dello scorso Ramadan 2007, racconta di una classe media, che vive nella capitale irachena e che è invisibile nei nostri notiziari, alle prese con i problemi di sempre – l’università, il matrimonio, ecc – ma in una situazione instabile, dove l’assenza di sicurezza e la violenza dettano legge.
E anche dall’Arabia Saudita arrivano sguardi televisivi originali: come quello di Abdallah Bijad Al Otibi, autore di Sinaat al maut («L’industria della morte»), programma di Al Arabiya che affronta il delicato tema del terrorismo. Ma soprattutto Irhab Academy («L’Accademia del terrorismo»), dove Al Otibi ridicolizza la violenza fondamentalista attraverso la satira, prendendosi gioco dei terroristi impegnati a imparare la violenza dentro un reality show modellato sul Grande Fratello, con tanto di prove di abilità, nomination e premi finali.
Un panorama televisivo arabo che vibra di novità e sguardi plurali, e che l’Occidente farebbe bene ad esplorare, per scoprire, attraverso gli schermi tivù, un mondo arabo in profonda mutazione.