Poca retorica e un po' più di frustrazione e pessimismo. Non è il tempo dei grandi proclami e di belle parole, quando si parla di conflitto tra israeliani e palestinesi, perché il futuro prossimo è di quelli delicatissimi, segnato da scadenze politiche ed elettorali determinanti. Lo sapevano bene, ieri pomeriggio, tutti i partecipanti al panel su «Israeliani e palestinesi in dialogo per la pace», riuniti dalla Comunità di Sant'Egidio alla 22ma edizione dell'incontro Uomini e Religioni in corso a Nicosia, capitale di Cipro.
È come se si fossero messi tutti d’accordo. Poca retorica, e un po’ più di frustrazione e pessimismo. Non è il tempo dei grandi proclami e di belle parole, quando si parla di conflitto tra israeliani e palestinesi, perché il futuro prossimo è di quelli delicatissimi, segnato da scadenze politiche ed elettorali determinanti. Lo sapevano bene, ieri pomeriggio, tutti i partecipanti al panel su «Israeliani e palestinesi in dialogo per la pace», riuniti dalla Comunità di Sant’Egidio alla 22ma edizione dell’incontro Uomini e Religioni in corso a Nicosia, capitale di Cipro.
E lo sapeva bene Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera, ma soprattutto uomo che il Medio Oriente lo frequenta assiduamente da decenni, che ha incalzato i suoi ospiti con le questioni più importanti. Come, ad esempio, la scadenza elettorale in Israele, prevista per il prossimo febbraio. Meir Sheetrit, ministro degli interni di Tel Aviv, è stato subito chiaro: il partito centrista Kadima, di cui è membro, non ha molte chance di vincere. I sondaggi, per ora, parlano di una possibile vittoria di Bibi Netanyahu, leader del Likud, alleato con la destra religiosa. «Se vincesse Netanyahu, e se ci chiedesse di entrare in una coalizione, dovremmo valutare la proposta. Secondo me, comunque, non dovremmo entrare in un governo che non abbia nel suo programma la pace con i palestinesi», ha detto Sheetrit.
Le scadenze elettorali non riguardano solo Israele. Per i palestinesi, però, è la stessa definizione della data a rendere ancor più profonda la frattura tra Fatah e Hamas. Il viceministro per gli Affari religiosi, Salah Zuheika, è stato tanto chiaro quanto duro: «Le elezioni legislative e presidenziali si terranno nello stesso momento, come prevede la legge», ha detto, mostrando che Fatah e l’Anp a Ramallah non hanno alcuna intenzione di raggiungere un compromesso con Hamas, che considera Abu Mazen come presidente legittimo dell’Autorità solo sino alla scadenza del suo mandato, il prossimo 9 gennaio.
Queste, però, sono questioni meramente politiche. Il dialogo, invece, si costruisce su altro. Per strada, tra le persone normali, che invece in Terra Santa non si incontrano, ma camminano solo – talvolta – sulle stesse pietre. È stato il Custode di Terra Santa, fra Pierbattista Pizzaballa, a dare la sferzata, perché «il problema – ha detto – è che il dialogo è solo tra israeliani e palestinesi, ed è un dialogo che non ha nessun legame con la realtà, non tocca la realtà della gente». Il conflitto, insomma, si svolge in un posto in cui ci sono tre fedi e almeno due culture, e nel quale «l’incontro è più difficile che da altre parti». Un posto, soprattutto, dove «c’è molto sospetto e non c’è fiducia reciproca». Fiducia che non si costruisce con la politica, ma in campo multiculturale e interreligioso.
«Non c’è solo questo, c’è la stanchezza della gente, che al dialogo non crede più», ha aggiunto il sociologo Bernard Sabella, riprendendo il tema della frustrazione nelle società israeliana e palestinese. «Si è passati attraverso varie fasi, in questi ultimi due decenni: prima è stata la rivolta, la prima intifada, a spingere al dialogo; poi c’è stata una forte e influente spinta da parte dei settori pacifisti; poi c’è stata la creazione di una vera e propria industria della pace, che ha reso alcuni molto ricchi». E infine, ha detto Sabella, deputato cristiano al parlamento palestinese, la stagione degli attentati suicidi nella seconda intifada ha praticamente svilito i settori pacifisti, che ora contano molto poco.
Un quadro poco incline all’ottimismo, completato dalle staffilate del rabbino David Rosen, che ancora una volta ha stigmatizzato l’emarginazione che i politici mediorientali hanno fatto delle autorità religiose. Le autorità religiose sono state escluse dalle dinamiche politiche, ed è stato per questo – è la sintesi del discorso del rabbino Rosen – che la religione è diventata «parte del problema», con la nascita di movimenti radicali di ispirazione religiosa. Ora è tempo, ha detto, che le autorità religiose diventino «parte della soluzione». Un discorso caro al rabbino Rosen, sul quale – però – non c’è stata unità di vedute, tra i relatori. Religione e politica, in Terra Santa, hanno dato spesso luogo a reazioni chimiche pericolose.