Il 10 marzo 2009 ricorrono i quindici anni dall’entrata in vigore dell’ Accordo fondamentale firmato dalla Santa Sede e dallo Stato di Israele (30 dicembre 1993). Potrebbe essere dunque questo un momento opportuno per valutare l’apporto di tale patto alla Chiesa in Israele. Tanto più che meno di un mese prima, e cioè il 3 febbraio 2009, cade il decimo anniversario dell’entrata in vigore del trattato successivo tra le stesse Parti, che si occupa di assicurare il pieno riconoscimento civile della personalità giuridica della Chiesa stessa e degli enti ecclesiastici. L’11 marzo 2009 è anche il decimo anniversario dell’inizio dei negoziati – tutt’ora in corso – miranti ad un accordo definitivo che raccolga e riconosca i diritti della Chiesa in campo fiscale e patrimoniale.
Questo particolare momento, dunque, così fitto di ricorrenze, sollecita tutti a rinnovata e approfondita riflessione sul senso, sull’andamento e sulle prospettive di questo processo voluto dalla Chiesa per dare basi solide e inquadratura stabile alla molteplicità dei rapporti tra Chiesa e Stato.
I giudizi, come solitamente accade nelle cose umane, non sono del tutto unanimi. Voci autorevoli hanno espresso delle perplessità di fronte alla lentezza del processo. Puntano il dito sull’attesa, che si prolunga, per la ricezione nell’ordinamento dello Stato d’Israele dei due trattati ratificati, come pure per la conclusione dell’importantissimo terzo accordo, che darebbe finalmente alla Chiesa in Israele l’ambito senso di sicurezza fiscale e patrimoniale. Inutile però fermarsi alla ricerca di responsabilità. Piuttosto, partendo dal doveroso riconoscimento dell’altrui buona fede e buona volontà, occorrerebbe pensare al contributo che ciascuno potrebbe dare alla vivificazione di questo progetto di un nuovo tipo di rapporto – pattizio e trasparente – tra la Chiesa e lo Stato.
Così, per esempio, potrebbe essere particolarmente utile una rappresentanza della Parte ecclesiastica che si trovi pienamente operativa nel centro proprio della vita sociale, civile e culturale della Nazione israeliana, piuttosto che cumulata con rappresentazioni diverse, inserite esse in contesti politici, sociali, civili e culturali ben distinti. Le comunità ed enti ecclesiastici, esteri e locali, potrebbero da parte loro curare sempre più che il riferimento agli strumenti pattizi, e ancor più ai loro principi ispiratori, sia sempre centrale nelle loro relazioni con tutte le espressioni delle pubbliche autorità; il che naturalmente richiederebbe uno studio approfondito di testo e contesto.
Gli accordi stessi, si deve aggiungere, potrebbero anche non dischiudere tutto il loro significato se non letti sullo sfondo della svolta epocale, voluta dal Servo di Dio Giovanni Paolo II, e di cui gli Accordi con Israele ( come pure l’ Accordo di base del 15 febbraio 2000 con l’Olp) sono le prime manifestazioni. Si tratterebbe di lasciare definitivamente dietro le spalle un rapporto basato sul «favore» dei governanti per sostituirlo con uno più moderno e trasparente basato sul diritto, ossia sulle «regole». È una «conversione» che corrisponde a una tendenza in atto un po’ dappertutto nella Chiesa del dopo Concilio Vaticano II, e va nella direzione di privilegiare lo «Stato di diritto» piuttosto che sistemi più «paternalistici», seppur nell’immediato favorevoli. In questa prospettiva, ancor più che sugli strumenti «concordatari», le Chiese locali e i loro membri potrebbero fare affidamento sull’ulteriore potenziamento del proprio impegno civile, del proprio coinvolgimento con tutti i settori dello Stato e della società. Lo favorirebbe lo stesso modello innovativo (per il Medio Oriente) di rapporti Chiesa-Stato prospettato dall’ Accordo fondamentale.