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La parola ai duri

26/01/2009  |  Milano
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Se ci voleva un ulteriore conferma al fatto che - una volta rotti i cocci con una guerra - non è mai facile rimetterli insieme, puntuali in Israele sono arrivati i sondaggi in vista delle elezioni del 10 febbraio. Alla fine chi ha guadagnato davvero più consensi grazie alla campagna di Gaza? Né Netanyahu, né la Livni, né lo stesso Barak. Il balzo in avanti più significativo l'ha fatto Avigdor Lieberman, il leader di Yisrael Beitenu. Secondo alcuni sondaggi potrebbe arrivare a conquistare 16 seggi, diventando il terzo partito dietro a Likud e Kadima.


Se ci voleva un ulteriore conferma al fatto che – una volta rotti i cocci con una guerra – non è mai facile rimetterli insieme, puntuali in Israele sono arrivati i sondaggi in vista delle elezioni del 10 febbraio. Alla fine chi ha guadagnato davvero più consensi grazie alla campagna di Gaza? Né Netanyahu, né la Livni, né lo stesso Barak (che pure è risalito un po’ dal baratro in cui si ritrovava il partito laburista). A sorpresa il balzo in avanti più significativo l’ha fatto Avigdor Lieberman, il leader di Yisrael Beitenu – «Israele, la nostra casa» – una forza politica che ormai non si può più definire semplicemente il «partito dei russi». Secondo alcuni sondaggi potrebbe arrivare a conquistare 16 seggi, diventando il terzo partito dietro a Likud e Kadima.

Chi è Lieberman e perché questo consenso? È molto interessante a questo proposito l’intervista pubblicata al leader di Yisrael Beitenu pubblicata in questo fine-settimana dal Jerusalem Post. Lieberman è il politico che in Israele più di ogni altro ha messo la mano nella piaga del rapporto difficile con gli arabi israeliani. Sostiene l’idea dei due Stati, ma a modo suo: per ottenerli – dice – non bisogna rimuovere gli insediamenti, ma spostare i confini. Rifilando ai palestinesi il «triangolo del nord», la parte della Galilea dove è più forte la presenza degli arabi israeliani. E tenendosi – in cambio – le aree dove è più consistente la presenza dei coloni. Lieberman – inoltre – è il politico che da sempre si è dimostrato più smanioso di menare le mani contro l’Iran, la «vera causa» di problemi come Hamas e Hezbollah. La guerra a Gaza ha rafforzato nell’opinione pubblica israeliana questo modo di pensare. Alla fine è l’idea che si possa risolvere il conflitto con un «colpo di genio». E soprattutto senza pagare alcun prezzo.

C’è ben poca voglia di riavviare negoziati in questo dopo guerra. Lo mostra specularmente – da parte palestinese – anche il secondo articolo, che rilanciamo dal sito internet Amin. Interessante qui è la firma: quella di Noha Khalaf, un ex diplomatico palestinese. Uno che gli anni di Oslo li conosce a menadito. Bene, come commenta la scelta di Obama di nominare George Mitchell come inviato Usa per il Medio Oriente? «Non ricominciamo con il teatrino dei mediatori e delle misure per creare fiducia tra le parti». È duro Khalaf. Chiede ad esempio agli Stati Uniti di non barcamenarsi, ma di promuovere soluzioni eque. Esprimendo così uno stato d’animo diffuso nei Territori. Però – anche qui – manca completamente alcun accenno ai problemi interni palestinesi, ai prezzi che anche a Ramallah e a Gaza bisogna essere disposti a pagare.

È un dopoguerra molto difficile quello che si sta consumando in Israele e nei Territori. Servirebbe una comunità internazionale disposta davvero a un’iniziativa politica forte in Medio Oriente. Le dichiarazioni vuote sui «due Stati» non bastano più. Oggi ci vorrebbero leader mondiali coraggiosi, capaci di esporsi – ad esempio – su alcuni confini da tracciare su una cartina e sulle regole che devono valere per tutti. Lieberman e Khalaf – se non altro – hanno il pregio di essere chiari. La loro è comunque una lezione su cui riflettere.

Clicca qui per leggere l’intervista del Jerusalem Post ad Avigdor Lieberman

Clicca qui per leggere l’articolo di Amin

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