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L’arcivescovo di Teheran spera che Obama sia uomo di pace

27/01/2009  |  Roma
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L’arcivescovo di Teheran spera che Obama sia uomo di pace
Il vescovo caldeo di Teheran, mons. Ramzi Garmou (63 anni).

L'auspicio della Chiesa iraniana per la nuova presidenza degli Stati Uniti è che Barack Obama sia «all'altezza della missione umanitaria e politica» che lo attende in Medio Oriente: sarà «un passo positivo» dice in un colloquio con Terrasanta.net l'arcivescovo di Teheran dei Caldei, mons. Ramzi Garmou, se Obama saprà impegnarsi, come ha detto di voler fare, «in un dialogo senza condizioni» con l'Iran e se saprà trovare «soluzioni giuste e rispettose dei popoli» ai conflitti in Iraq, Afghanistan, tra Israele e Palestina. Quanto alla Chiesa, anche mons. Garmou condivide la richiesta presentata al Papa nei giorni scorsi di indire una speciale assemblea del Sinodo dedicata al Medio Oriente.


L’auspicio della Chiesa iraniana per la nuova presidenza degli Stati Uniti è che Barack Obama sia «all’altezza della missione umanitaria e politica» che lo attende in Medio Oriente: sarà «un passo positivo» dice in un colloquio con Terrasanta.net l’arcivescovo di Teheran dei Caldei, mons. Ramzi Garmou, se Obama saprà impegnarsi, come ha detto di voler fare, «in un dialogo senza condizioni» con l’Iran e se saprà trovare «soluzioni giuste e rispettose dei popoli» ai conflitti in Iraq, Afghanistan, tra Israele e Palestina.

Reduce dalla visita ad limina in Vaticano compiuta nei giorni scorsi con gli altri tre vescovi iraniani, il presidente della conferenza episcopale, iracheno di nascita, ha seguito da Roma, insieme agli altri presuli iracheni, i primi passi del nuovo inquilino della Casa Bianca. «Spero che il presidente Obama – dice – si riveli veramente un uomo che cerchi la pace e che metta fine all’occupazione in Iraq, dove cinque anni di guerra hanno causato la morte di moltissimi innocenti e creato milioni di rifugiati, tra profughi e sfollati che vivono in condizioni di vita drammatiche, tanto all’estero quanto in patria. L’Iraq è stato un Paese con un alto tasso di istruzione, è ricco di risorse naturali, e nonostante tanti anni di sofferenze e di embargo può risollevarsi dalla guerra. Dunque spero sinceramente che il presidente Obama lavori rapidamente per porre fine a questa tragedia, ed anche per risolvere gli altri problemi che affliggono la comunità internazionale: l’Afghanistan e il conflitto israelo-palestinese. Ma deve sapere – rimarca – che questi conflitti possono essere risolti solo a patto di cercare soluzioni nella giustizia, e nel rispetto dei diritti dei popoli a vivere con dignità, con libertà. La libertà non può certo essere esportata dagli Stati Uniti ma è il frutto della cultura di un popolo, della sua civiltà, della sua esperienza storica e persino della sua religione: occorre rispettare i popoli e la loro forma di vivere, la specifica forma di democrazia alla quale sono giunti. Quindi spero che Obama sia all’altezza di questa missione che è umanitaria e politica, perché non si può certo dimenticare il peso degli Stati Uniti nel mondo e la loro responsabilità».

Quanto all’Iran e alla corsa al nucleare, già sanzionata dalle Nazioni Unite, mons. Garmou non ha dubbi: «Il presidente Obama ha detto di volersi impegnare con le autorità iraniane in un dialogo "senza condizioni" e penso che se lo farà sarà un passo positivo. Ma questo deve avvenire, come lui stesso ha detto, senza condizioni preliminari: gli iraniani cercano pace e buone relazioni con tutto il mondo, per questo spero che sappia intraprendere la strada della diplomazia».

Originario di Zakho, a nord di Mosul, l’arcivescovo vive dal 1976 a Teheran, dove è permesso l’esercizio del culto nelle due parrocchie della capitale ma è proibito il proselitismo. Di fronte all’inarrestabile emorragia che colpisce da decenni la comunità cattolica, oggi ridotta a circa 5 mila fedeli, egli condivide la richiesta formulata sabato scorso al Papa dai vescovi iracheni di un Sinodo per il Medio Oriente: «Penso che sarebbe utile, perché oggi come pastori della Chiesa in Medio Oriente abbiamo bisogno di un incontro per avere una visione chiara dell’avvenire del cristianesimo nei nostri Paesi, che sembra essere minacciato dall’emigrazione in corso da molti anni, dall’instabilità, dall’insicurezza e dai conflitti esistenti in Iraq, in Libano, tra israeliani e palestinesi… Dunque un incontro a livello sinodale può essere proficuo a condizione che sia ben preparato e a patto che le decisioni che vengono prese siano poi concretamente applicate, che non restino solo parole vuote».

Monsignor Garmou pensa soprattutto al rafforzamento dell’identità dei cristiani nei Paesi della Mezzaluna ed alla presa di coscienza del loro ruolo di «testimoni» nelle società musulmane: «Innanzitutto dobbiamo prendere atto che non si può fermare l’emigrazione – osserva – perché ciascun uomo è libero di vivere dove vuole e ovviamente di cercare un avvenire migliore di quello che gli si prospetta dinanzi, come il Papa stesso ha ammesso nel discorso che ci ha rivolto. Ma poi occorre risvegliare nei cristiani la responsabilità, che proviene dal battesimo, della loro missione, anche in una condizione di minoranza come in Medio Oriente. Io stesso ho riferito al Papa come la sfida che oggi dobbiamo affrontare sia quella di aiutare i cristiani a passare da una fede sociologica ed etnica ad una fede ricevuta come dono dello Spirito Santo, che si traduce in un’esperienza spirituale ed ecclesiale. È fondamentale che i cristiani siano consapevoli del loro ruolo: il valore più grande per i cristiani, come proclamato dal Vangelo, è l’amore, e questo amore da dare al prossimo, da rendere visibile nelle circostanze di vita di ciascuno, all’interno della propria nazione, vuol dire pazienza, perdono, sofferenza: perché un amore reale non può essere privo di sofferenza e per questo il simbolo del cristianesimo è la croce».

Con gli altri presuli caldei mons. Garmou condivide anche la preoccupazione per la modifica della legge elettorale che di fatto cancella la rappresentatività della minoranza cristiana in Iraq, e per il piano di relegare i cristiani nella piana di Ninive, separandoli dal resto del Paese. «La prima responsabilità di un vescovo – rimarca – deve essere quella di insistere su due principi cardine: quello dei diritti garantiti dalla cittadinanza e quello della libertà religiosa, che dovrebbe permettere ai cristiani di vivere in qualsiasi città e regione dell’Iraq e di dare il loro contributo al progresso del Paese».

Alla vigilia del ritorno a Teheran, dove tra un paio di settimane cominceranno le celebrazioni per i trent’anni della Rivoluzione dell’ayatollah Khomenei, mons. Garmou ha il compito di istituire una commissione bilaterale con le autorità iraniane per una maggiore «conoscenza reciproca» fra Chiesa e Stato in Iran ma anche, spiega, per dirimere questioni legate a delle proprietà della Chiesa confiscate nel ’79: «Dopo la Rivoluzione alcune scuole cattoliche sono state nazionalizzate e non abbiamo mai ricevuto un indennizzo: stabilirlo dovrebbe essere compito della Commissione».

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