The Reader, pellicola fuori concorso all'ultima Berlinale, cammina sul crinale impervio della originalità nell'approccio al tema dell'Olocausto. Al cuore del film stanno la condanna, il perdono e la memoria, in una Germania del dopo-Reich in cui le responsabilità sono talmente diffuse da coinvolgere le famiglie, gli affetti, gli amori, e dove è forte la tentazione del capro espiatorio e, peggio, dell'autoassoluzione generale. Daldry, il regista, dipana con sufficiente mestiere l'intricata matassa della narrazione.
Non aspettatevi il classico film sull’Olocausto: The Reader, presentato fuori concorso all’ultima Berlinale e arrivato nelle sale italiane a febbraio, cammina sul crinale impervio dell’originalità dell’approccio, sempre faticoso su un tema così delicato e oramai persino frequente nella cinematografia. Tratta da A voce alta, romanzo del 1995 scritto dal tedesco Bernhard Schlink, e diretta da Stephen Daldry (Billy Elliot, The Hours), la pellicola parte dall’incontro fortuito tra il quindicenne Michael e la trentaseienne Hanna. Sullo sfondo di una Germania da ricostruire dopo la tragedia nazista, i due instaurano una scabrosa relazione sessuale e un complesso legame psicologico, fondato sull’abitudine di lei di farsi leggere da lui a voce alta (appunto) pagine di classici della letteratura, un particolare che si rivelerà decisivo per la trama.
La torbida liaison dura un’estate sola, ma sarà destinata a riaffiorare dieci anni dopo, quando Michael, studente di legge ad Heidelberg e impegnato a seguire i processi per i crimini nazisti, affronterà lo choc di ritrovare Hanna alla sbarra, come ex SS e principale imputata della strage di trecento ebrei arsi vivi in una chiesa. È qui che si giocano i temi principali del film: la condanna, il perdono e la memoria nel dopo-Reich, in una Germania in cui le responsabilità sono talmente diffuse da coinvolgere le famiglie, gli affetti, gli amori, e dove è forte la tentazione del capro espiatorio e, peggio, dell’autoassoluzione generale.
Daldry dipana con sufficiente mestiere l’intricata matassa della narrazione, nonostante la durezza della prima parte, dedicata alla costruzione del legame (fisico e sentimentale) tra i due protagonisti, e la tragicità della seconda, in cui arriva il momento di fare i conti con la verità. A tenere insieme il tutto credibilmente è l’interpretazione di Kate Winslet, premiata con l’Oscar dopo cinque nomination andate a vuoto in passato. È l’attrice britannica a colmare qualche fatica della pellicola, con una prova superlativa nel disegnare l’anima di una Hanna incapace di comprendere fino in fondo il male di cui si è resa colpevole se non dopo il riscatto dell’espiazione e grazie alla «parola», quella letteraria soprattutto, vero filo rosso del film. Una parola, pronunciata e ascoltata, che aiuta ad affrontare l’insostenibile, una volta che si è imparato a leggere la propria storia e a guardare negli occhi la verità. Le vite di Hanna, di Michael e persino delle due donne ebree uniche scampate all’eccidio, troveranno un’occasione di incontro quando il segreto, finalmente, lascerà il posto al racconto.