Siamo ormai alla vigilia dell'insediamento del governo Netanyahu. Sul profilo del nuovo premier e delle altre due star della compagine - il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman e quello della Difesa Ehud Barak - in questi giorni si è parlato fino alla noia. C'è un aspetto, invece, di cui si parla molto poco: gli effetti della crisi finanziaria globale in Israele. Quando dall'esterno si guarda verso Gerusalemme ci si concentra sempre e solo sui rapporti con i palestinesi. Invece le questioni economiche probabilmente sono destinate a contare molto nei prossimi mesi. Due articoli ci aiutano a capirlo.
Siamo ormai alla vigilia dell’insediamento del governo Netanyahu. Sul profilo del nuovo premier e delle altre due star della compagine – il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman e quello della Difesa Ehud Barak – in questi giorni si è parlato fino alla noia. C’è un aspetto, invece, di cui si parla molto poco: gli effetti della crisi finanziaria globale in Israele. Quando dall’esterno si guarda verso Gerusalemme ci si concentra sempre e solo sui rapporti con i palestinesi. Invece le questioni economiche probabilmente sono destinate a contare molto nei prossimi mesi. Due articoli ci aiutano a capirlo.
Il primo lo prendiamo da Arutz Sheva, l’agenzia vicina al mondo dei coloni. Voce oggi molto interessante perché – dopo i primi entusiasmi – sta cominciando a punzecchiare da destra il futuro governo Netanyahu. Si parte da una notizia di cronaca apparentemente banale: uno dei primi atti del nuovo governo sarà chiedere una proroga per la presentazione del bilancio. In teoria la scadenza sarebbe il 15 maggio ma con Pesach (la Pasqua ebraica) di mezzo i tempi sarebbero strettissimi. Così si slitterà al 28 giugno. Niente di tragico, ovviamente. Se non fosse che il bilancio sarà già un ostacolo non da poco per il governo Netanyahu. In pochi hanno ricordato che in autunno Tzipi Livni non riuscì a formare il suo governo per via delle richieste economiche dello Shas, il partito religioso dei sefarditi. E nel nuovo governo i voti dello Shas saranno altrettanto determinanti. Poi ci sono i laburisti, che nel contestatissimo accordo di governo hanno fatto mettere nero su bianco la concertazione con l’Histadrut, il sindacato israeliano (il cui leader Ofer Eini è stato proprio uno dei principali sponsor di Netanyahu tra i laburisti). Il neo-premier, dunque, ha distribuito promesse a destra e a sinistra ma ora dovrà fare i conti con la situazione finanziaria. E i nodi non potranno che venire al pettine. È una partita che Benjamin (Bibi) Netanyahu giocherà in prima persona, tenendo per sé il ministero delle Finanze. Sul piatto vuole gettare le sue credenziali di artefice della crescita economica sperimentata da Israele durante i governi Sharon. Ma è un’arma che il leader del Likud dovrà maneggiare con molta cura. Lo si capisce già da questa prima bordata di Arutz Sheva: l’agenzia ricorda infatti che tra i grandi beneficiati del ministro delle Finanze Netanyahu c’è il professor Stanley Fischer, l’economista che – proprio su invito di Bibi – lasciò il suo scranno newyorchese alla Citibank per andare a guidare la Bank of Israel, la Banca centrale israeliana. Col senno di poi: giusto in tempo per non dover rispondere delle responsabilità per la tempesta che, di lì a poco, avrebbe colpito il colosso bancario americano. Tradotto in termini più chiari: Netanyahu è uomo di quello stesso mondo che ci ha portati dritti nella crisi.
Una crisi finanziaria che tocca ormai anche campi apparentemente molto lontani. Lo spiega bene il secondo articolo, che abbiamo tratto da uno dei tanti blog che parlano di archeologia del Medio Oriente. Come molti probabilmente sanno, Israele è il paradiso degli archeologi: non c’è Paese al mondo che possa vantare campagne di scavi dello stesso livello. Però, spiega sull’Asor Blog Aren M. Maeir, dell’istituto di archeologia della Bar-Ilan University, adesso anche qui cominciano a mancare i fondi. Un’importante finanziatore – la Horwitz Foundation – è addirittura sparita, travolta dallo scandalo Madoff. Ma anche per tutti gli altri è tempo di vacche magre. Una campagna di scavi costa tra i 100 e i 200 mila dollari all’anno, cifre che in pochi oggi possono permettersi. Sembrerebbe una questione secondaria, visti tutti gli altri problemi del Medio Oriente. In realtà – invece – è un tema che ha anche forti ripercussioni politiche. Già in questi ultimi anni, infatti, nell’Israeli Antiquities Authority è cresciuto molto il peso delle realtà legate al mondo dei coloni, che guardano all’archeologia come a una via per affermare i propri «diritti» sulla terra. Se calano ulteriormente i finanziatori il rischio è che alla fine rimangano solo quelli che – al di là della ricerca storica – hanno in mente soprattutto altre finalità.
La crisi finanziaria è un osso duro perché costringerà tutti a fare delle scelte. Compreso l’improbabile governo dei sostenitori di tutto e del contrario di tutto, messo insieme da Bibi Netanyahu.
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