La Conferenza internazionale dei donatori svoltasi a Sharm el-Sheikh, Egitto, il 2 marzo scorso, ha riversato sulla Palestina e sulla martoriata Striscia di Gaza un fiume di denaro. Rispetto ai previsti 2,7 miliardi di dollari, ne sarebbero stati sottoscritti 5,2 di cui una parte destinata alla ricostruzione di Gaza e una consistente fetta finalizzata a rimpinguare le asfittiche casse dell’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania e a rafforzare il governo del presidente uscente Abu Mazen. A questo enorme flusso di denaro, vanno aggiunti anche i 7,7 miliardi in tre anni già precedentemente stanziati alla Conferenza di Parigi.
Qualcuno si è divertito a calcolare che la donazione pro-capite per ogni cittadino di Gaza e della Cisgiordania è di 3.500 dollari, una cifra esorbitante se si calcola che nella Striscia la maggior parte della gente campa con meno di 3 dollari al giorno.
L’esito del vertice egiziano e l’esposizione economica della comunità internazionale (che ha assistito quasi impotente alla crisi di Gaza) dimostra una verità inconfutabile: non sono certo i soldi che mancano in Terra Santa. Manca (sia sul versante israeliano che palestinese) una vera volontà politica di risolvere il conflitto e di pagare il prezzo (anche doloroso) che la pace comporta.
Aiuti così ingenti (necessari, ma che spesso finiscono per alimentare corruzione e clientele, senza arrivare a produrre un vero beneficio per la popolazione) sono solo un pannicello caldo, un espediente buono a lavarsi la coscienza di fronte a una tragica situazione di stallo.
Senza la seria ripresa di un percorso verso la pace e la riconciliazione tra Israele e Palestina, gli aiuti a Gaza e alla Cisgiordania denunciano solo il limite di una politica internazionale che preferisce prendere tempo, invece di impegnarsi e agire. Fino alla prossima, tragica crisi.