Domani, 23 aprile, si svolgerà tra Betlemme e Gerusalemme la sesta edizione della Maratona Giovanni Paolo II per la pace, un evento sportivo che raccoglie persone di culture e religioni diverse, tra cui anche musulmani ed ebrei. Lanciata dal Centro sportivo italiano (Csi), dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) e dalla diocesi di Roma, l'edizione di quest'anno coincide con la partenza, da Gerusalemme, di una staffetta di 1.300 chilometri sulle orme di san Paolo. Per saperne di più Terrasanta.net ha parlato qualche giorno fa con padre Kevin Lixey, responsabile della sezione «Chiesa e sport» del Pontificio consiglio per i laici, tra i principali sponsor dell'iniziativa.
Domani, 23 aprile, si svolgerà tra Betlemme e Gerusalemme la sesta edizione della Maratona Giovanni Paolo II per la pace, un evento sportivo che raccoglie insieme persone di culture e religioni diverse, tra cui anche musulmani ed ebrei. Lanciata dal Centro sportivo italiano (Csi), dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) e dalla diocesi di Roma, l’edizione di quest’anno coincide con la partenza, da Gerusalemme, di una staffetta di 1.300 chilometri sulle orme di san Paolo, a pochi giorni dal pellegrinaggio di Papa Benedetto XVI in Terra Santa. Per saperne di più, Terrasanta.net ha parlato qualche giorno fa con padre Kevin Lixey, responsabile della sezione «Chiesa e sport» del Pontificio consiglio per i laici. L’ufficio di padre Lixey è tra i principali sponsor dell’iniziativa.
Padre Lixey, come ha avuto inizio la Maratona Giovanni Paolo II per la pace?
La maratona è nata dopo l’inizio della seconda intifada nel 2000. La Cei, guidata all’epoca dal cardinale Camillo Ruini, voleva incoraggiare i pellegrinaggi in Terra Santa. Come gesto di testimonianza lanciarono una piccola maratona, che poi di anno in anno è stata ripetuta. Alla prima edizione i partecipanti furono una trentina. L’anno scorso erano un folto gruppo, tra cui anche 160 italiani e palestinesi che vivono a Betlemme. In sintesi l’intento originario era dimostrare che non c’è problema ad andare in Terra Santa e che anche i palestinesi potevano raggiungere Gerusalemme transitando per un check point spalancato per l’occasione.
Quindi è un’iniziativa utile a tutti, cristiani israeliani e palestinesi, musulmani ed ebrei?
Certo, ed ora siamo alla sesta edizione. L’anno scorso anche il cardinale Ruini era presente alla marcia, che coincideva con un pellegrinaggio della diocesi di Roma. Io stesso potei prendervi parte ed anche a correre con un buon tempo. Il nostro ufficio, Chiesa e sport, ha aderito all’iniziativa perché alcuni i suoi obiettivi coincidono con il nostro programma, che contempla anche di promuovere la pace attraverso lo sport.
Si tratta di una gara competitiva?
No, ogni partecipante riceve una medaglia, ma non si tratta di una vera e propria corsa, anche perché il gruppo deve muoversi abbastanza compatto sotto la scorta della polizia. In qualche fase non si può che camminare, per via del check point. Personalmente ricordo di aver corso accanto a una signora dai Territori palestinesi, a un’altra di origini ebraiche proveniente da New York e a ragazzi di altre parti del mondo. La partenza è da Betlemme. Giunti al check point si aggiungono al gruppo anche gli israeliani, che non possono entrare nella città palestinese. Il percorso si chiude al centro Notre Dame, a Gerusalemme. Copriamo una decina di chilometri in tutto, un’impresa non impossibile. Più una marcia che una maratona.
La Maratona Giovanni Paolo II ha l’avallo delle autorità israeliane?
Sì, in particolare del ministero del Turismo, che ha tutto l’interesse a promuovere i viaggi in Terra Santa. Tuttavia non molti in Israele hanno sentito parlare della marcia. Sono soprattutto i francescani di Gerusalemme e Betlemme a cooperare con noi nel coinvolgere i partecipanti locali.
Avete problemi al check-point del muro che cinge Betlemme?
No, è spalancato. I partecipanti vengono lasciati passare, poi i cancelli si richiudono. Molti dei corridori si trattengono a Gerusalemme dopo la marcia. È un’occasione rara, per loro, di visitare la città senza problemi.
In quanti eravate lo scorso anno?
Complessivamente eravamo in 160 dall’Italia, in gran parte da Modena. In totale direi che saremo state 250-300 persone.
Stavolta quanti sarete?
Quest’anno dall’Italia siamo in meno anche perché qualcuno andrà in Terra Santa tra pochi giorni, in occasione della visita del Papa, quando verrà organizzato un nutrito pellegrinaggio italiano. La particolarità dell’edizione 2009 è che la marcia sarà l’inizio di una maratona più lunga sulle orme di san Paolo (una staffetta intitolata Sui passi di san Paolo che terminerà il 27 maggio). Sarà un’impresa memorabile in occasione dell’Anno Paolino e si snoderà su un percorso che va da Gerusalemme a Cesarea, per poi proseguire in Grecia, a Malta, in Sicilia (Siracusa) e terminare a Roma, nei luoghi toccati da Paolo durante la sua predicazione. Tutto ciò si deve agli auspici della Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport e al Csi, che sin dagli inizi è stato coinvolto nella maratona Betlemme-Gerusalemme e rimane uno dei suoi principali promotori.
Si scorgono frutti visibili dalle scorse edizioni della Maratona della pace?
È difficile dirlo. Credo che sia entusiasmante per gli italiani e tutti coloro che vi prendono parte perché fanno una piacevole esperienza della Terra Santa. Talvolta questo è un modo per indurre qualche sportivo a fare qualcosa che altrimenti non avrebbe mai fatto. Ma è anche la possibilità di vedere da vicino le sofferenze di molti laggiù. Di solito alloggiamo con i palestinesi a Betlemme, piuttosto che negli alberghi a quattro stelle di Gerusalemme. Lo scorso anno siamo scesi a Gerico. In un certo qual modo cerchiamo di capire quello che la popolazione sta passando. Vorremmo essere messaggeri di pace. Tutti cercano di trarre il massimo da questa esperienza, qualunque sia la loro estrazione. È un fatto che i partecipanti corrono spalla a spalla e questo è un gesto elequente. Non è un’idea all’insegna dello «sport panacea per i problemi del mondo», ma un’occasione offerta a molti di incontrare persone con cui altrimenti non avrebbero nulla a che fare. Infine, non si tratta di un evento religioso ma sportivo. Nel pomeriggio abbiamo anche organizzato tornei di calcio paralleli alla marcia in cui alcuni seminaristi hanno giocato contro coetanei israeliani a Gerusalemme. Ma tutto ciò non è altro che una goccia nell’oceano.