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Nella Messa papale allo stadio d’Amman si guarda all’Iraq

09/05/2009  |  Amman
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Nella Messa papale allo stadio d’Amman si guarda all’Iraq
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Quaranta prime comunioni a bambini cristiani iracheni, con ogni probabilità ricevute dalle mani dello stesso Pontefice. È questo uno dei segni che viene proposto durante la Messa che Benedetto XVI celebra domenica 10 maggio nello stadio di Amman. Per dire al mondo di non dimenticare la tragedia della diaspora del popolo iracheno, che continua ancor oggi,  a sei anni dall'invasione americana del 2003. Dei rifugiati dall'Iraq manca in realtà un censimento preciso: ma stime credibili indicano in più di mezzo milione i profughi che hanno trovato rifugio al di qua del confine giordano. Vivono quasi tutti ad Amman, in affitto dove capita, con seri problemi di sostentamento.


Quaranta prime comunioni a bambini cristiani iracheni, con ogni probabilità ricevute dalle mani dello stesso Pontefice. È questo uno dei segni che viene proposto durante la Messa che Benedetto XVI celebra domenica 10 maggio nello stadio di Amman. Per dire al mondo di non dimenticare la tragedia della diaspora del popolo iracheno, che ancora oggi continua a sei anni dall’invasione americana del 2003. E dire ai cristiani iracheni che la speranza può essere ancora accesa. Dei rifugiati dall’Iraq manca in realtà un censimento preciso: ma stime credibili indicano in più di mezzo milione i profughi che hanno trovato rifugio al di qua del confine giordano. Vivono quasi tutti ad Amman, in affitto dove capita, con seri problemi di sostentamento. Di questo mezzo milione, almeno 20 mila sono cristiani affidati alle cure pastorali di monsignor Salim Sayegh, vicario per la Giordania del patriarca latino di Gerusalemme (la cui diocesi si estende su Israele, Territori palestinesi e, appunto, il Regno hashemita).

Ad occuparsi di loro in questo momento c’è un solo sacerdote, aiutato da quattro diaconi. È padre Raymond Moussalli, vicario patriarcale della Chiesa caldea in Giordania, che per loro celebra quotidianamente una messa in una cappella ricavata da un appartamento, nel quartiere di Jabal Lweibdeh: qui entrano ed escono, in ogni ora del giorno, iracheni cristiani che cercano una parola di conforto. E le parole che risuonano nell’ufficio di padre Raymond, tra i cristiani e il sacerdote, sono proprio in aramaico – secondo la tradizione caldea -, proprio nella lingua cioè parlata da Gesù di Nazaret. «Questi cristiani hanno perso ogni cosa – ci racconta padre Raymond la sera in cui lo andiamo a trovare -. Di certo tutti loro sperano in una pace in Iraq. In tanti anni di convivenza, iniziano a vedersi anche alcuni matrimoni tra giordani e iracheni. Ma il 90 per cento non tornerà più in Iraq e se ne andrà dalla Giordania: preferiscono aspettare il visto per un nuovo Paese e rincominciare da capo in un posto diverso. Intanto, mentre attendono, sono in stato di bisogno, in particolare per problemi di lavoro, educazione e sanità su cui non hanno alcuna copertura».

«La situazione degli iracheni in Giordania è tragica – spiega Hania Bsharat, responsabile del Centro per rifugiati e migranti della Caritas di Amman – . Sono centinaia di migliaia, vivono nei quartieri più poveri di Amman anche se ultimamente diversi si spostano in altre città giordane, dove sperano in un costo della vita più basso. Arrivano in Giordania e fanno richiesta di status di rifugiati. Nel frattempo, però, non possono lavorare, perché il governo giordano non lo permette. Così, chi ha la possibilità di ricevere soldi dall’estero, vive senza fare nulla. Gli altri lavorano illegalmente con il pericolo di essere scoperti , arrestati e rimandati in Iraq. Pochi, per questo si arrischiano, a lavorare. Soprattutto per i giovani uomini che in Iraq erano professori, ingegneri, avevano un ruolo e un lavoro, questa inattività è distruttiva. Molti di loro a casa avevano una posizione e adesso qui non sono nessuno e vivono solo grazie ad aiuti. Cosa difficile da accettare: tra gli iracheni anche per questo registriamo molte malattie legate alla pressione del sangue, al cuore, e alla depressione».

Il segno della prima comunione data ai 40 bambini iracheni non è casuale. Uno dei campi in cui è più impegnata la Chiesa giordana è proprio quello dell’educazione: «Fino al 2007 i ragazzi iracheni non potevano frequentare le scuole giordane -continua Hania – . Solo all’inizio dello scorso anno il re ha permesso invece che fossero ammessi. Questo è un fatto molto positivo. Ma i ragazzi che per anni non avevano frequentato la scuola si sono trovati con un grave gap educativo». Così la Caritas organizza per loro corsi di recupero, paralleli alle normali lezioni, ma anche di inglese e di computer aperti ai giovani più grandi e ai disoccupati giordani. «È importante mettere sullo stesso piano I poveri iracheni e quelli giordani – spiega Hania – . Nei primi anni della diaspora I giordani vivevano infatti la presenza irachena con risentimento: a causa dell’arrivo degli iracheni il costo della vita, gli affitti delle case ma anche gli alimentari, infatti era fortemente aumentato ad Amman. Oggi, per fortuna, c’è una maggiore comprensione».

M.T. 69 anni, iracheno di Alqosh, un villaggio quasi totalmente cristiano vicino alla città di Mosul, è arrivato con la moglie ad Amman dieci mesi fa. Ha abbandonato la sua grande casa e il lavoro da insegnante. Ha subito chiesto un visto per gli Stati uniti dove vivono due dei suoi figli ma ancora non ha ricevuto risposta. Così è costretto a vivere con i soldi che gli manda una figlia, rimasta in Iraq. E del contributo mensile, insufficiente, delle Nazioni Unite. L’appartamento in cui vive, ad Amman ha due grandi stanze, arredate poveramente, e gli costa ogni mese 250 dinari giordani, circa 300 euro, pari a un intero stipendio del suo lavoro in Iraq. «Nel mio villaggio di origine siamo tutti cristiani caldei – ricorda, mentre sorseggiamo il tè che ci porta la moglie -. Prima dell’invasione americana eravamo circa 5 mila. Oggi siamo almeno 10 mila, perché i cristiani di Bassora, Baghdad, Mosul e Kirkuk hanno trovato rifugio da noi. Saddam non era buono, ha fatto la guerra, ha commesso molti errori. Ma almeno c’era ordine, si poteva vivere. Dopo l’invasione è cambiato tutto. Adesso non c’è un minimo di sicurezza e per noi cristiani la situazione è impossibile». M. è pieno di rabbia mentre racconta. Così tanta che diventa rassegnazione. «A Mosul, tanti nostri amici cristiani hanno ricevuto una visita – dice -: un musulmano ha bussato alla porta di casa loro consegnando un foglio di carta. C’era scritto: “Se diventerete musulmani vivrete felici, se no morirete”. Poi hanno iniziato a uccidere i cristiani. In questi anni hanno fatto esplodere diverse nostre chiese. Solo nel 2008 hanno ucciso in una settimana dodici persone. Noi cristiani abbiamo perso più di chiunque in Iraq. Eppure il gruppo di più antica appartenenza a quella terra: siamo arrivati prima dei musulmani. Perché non dovremmo più viverci? Il nostro patriarca dice: “Non partite, non partite!”. Ma come facciamo a non partire? Quando hanno ucciso mio cugino perché non riusciva a pagare una somma che gli avevano chiesto, sono andato dal patriarca a chiedere di fare qualcosa. Ma lui mi ha detto che non poteva fare nulla. Come posso vivere lì io se il mio patriarca non può fare nulla per me? Il Papa chiede la pace, ma chi lo vuole ascoltare? Siamo come pecore senza un pastore… Come possiamo vivere in una foresta piena di lupi? Sono stato in un ospedale, qui ad Amman: c’erano almeno venti iracheni, anche dei ragazzi, con menomazioni fisiche dovute alle bombe: erano felici di non essere morti. In Iraq ci sono forse 2 milioni di vedove e 4 milioni di orfani».

Padre Raymond di storie come questa ne ha sentite a migliaia: «Vorremmo che la Messa del Papa, domenica, servisse per aiutare a non dimenticare i cristiani d’Oriente. Ricordatevi di loro. Vogliono solo un aiuto e un sostegno per poter restare a vivere nella loro terra».

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