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Un regno giovane e attento alla libertà religiosa dei propri sudditi. Pur vivendo le contraddizioni del mondo arabo: è la Giordania che ha accolto Benedetto XVI.

Dialogo oltre il Giordano

Carlo Giorgi, inviato
18 giugno 2009
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All’aeroporto di Amman il vento strapazza le bandiere. Quella giordana e quella pontificia, issate qui come in tutta la città in lunghi filari di pennoni. E anche la veste bianca del Pontefice si agita al vento, mentre scende la scaletta che lo porta a incontrare il re amico, Abdallah II. Subito il viaggio del Papa prende una direzione precisa e chiara: quella della mano tesa nel rispetto e nell’ascolto di tutti. Quella della rivendicazione della libertà religiosa, così preziosa per ogni essere umano.

«Cari amici – sono le prime parole del Pontefice arrivato in Giordania -, sono lieto di posare i piedi sul suolo del Regno hashemita (il nome della dinastia giordana, che si ritiene discendente dal profeta Maometto – ndr) una terra tanto ricca di storia, patria di così numerose antiche civiltà e profondamente intrisa di significato religioso per ebrei, cristiani e musulmani».

In Giordania i cristiani non sono realisticamente più del 2 per cento della popolazione. Ma, nonostante tutto, qui si può vivere. Tutti si sentono membri di un’unica nazione. Re Abdallah combatte il fanatismo, lavora per una convivenza pacifica tra i cittadini. «Oggi la accogliamo nella nostra casa – afferma il sovrano all’aeroporto, nel suo discorso di benvenuto -. Qui in Giordania, dove la fede in Dio, l’Unico Dio, affonda le sue antiche radici, qui in mezzo al popolo giordano, per il quale la fede in Dio rimane il fulcro della vita stessa, apriamo le porte per accoglierla».

E davvero, senza retorica, è così: nel suo viaggio verso Gerusalemme, Benedetto XVI si trattiene per qualche giorno nella «casa giordana»; nonostante gli impegni pastorali, prende fiato e si rinfranca, proprio come a casa di amici.

Nei giorni precedenti il suo arrivo ad Amman, l’attesa del Pontefice è tangibile. Sui viali principali le aiuole sono rimesse a nuovo dai giardinieri, squadre di imbianchini dipingono i marciapiedi. Alla moschea hashemita, dove il Papa incontrerà il mondo islamico, alcuni operai finiscono di sistemare la pavimentazione del marciapiede esterno. Oltre alla sfilza di bandiere giordane e vaticane nei grandi viali di questa sconfinata capitale moderna, su alcuni edifici campeggiano manifesti di re Abdallah e di Papa Benedetto. Anche la stampa è polarizzata dalla visita del Santo Padre: giovedì sera, la vigilia dell’arrivo, il telegiornale del primo canale nazionale trasmette un servizio di venti minuti sulle visite dei pontefici in Giordania, con rare immagini di archivio di Paolo VI che passeggia assieme al compianto re Hussein a Gerusalemme Est. Mentre il Jordan Times, quotidiano locale in lingua inglese, pubblica un articolo con le interviste dei vescovi latino, Salim Sayegh, e melchita, Yaser Al-Ayyash. In particolare, colpiscono le parole di mons. Sayegh: «I musulmani sono nostri fratelli e desideriamo davvero che partecipino all’accoglienza del Papa in Giordania. Non vogliamo che siano ai margini di questo importante evento».

La mano tesa del vescovo si comprende fino in fondo se si pensa alla posizione di una frangia minoritaria della locale società musulmana: il movimento dei Fratelli Musulmani, prima del suo arrivo, ha infatti chiesto al Papa di fare ammenda per quanto pronunciato nel 2006 all’università di Ratisbona. Espressioni che, secondo il movimento, furono «contro l’islam e il profeta Maometto».

Posizioni per nulla condivise dalle autorità: «Provocazioni, ideologie ambiziose che puntano a dividere, rappresentano la minaccia di sofferenze indicibili – afferma il sovrano hashemita all’aeroporto -. Dobbiamo opporci a questa corrente per il futuro del mondo. Oggi, insieme, è necessario rinnovare il nostro impegno al rispetto reciproco. È da qui ed è ora che deve partire un nuovo dialogo che abbracci tutto il mondo, un dialogo di comprensione e buona volontà».

E fin dalle prime parole, i discorsi di Papa Benedetto sono un invito al dialogo e una profezia di Pace. «La mia visita in Giordania mi offre la gradita opportunità di esprimere il mio profondo rispetto per la comunità musulmana – risponde il Pontefice – e di rendere omaggio al ruolo di guida svolto da sua maestà il re nel promuovere una migliore comprensione delle virtù proclamate dall’Islam. Ora che sono passati alcuni anni dalla pubblicazione del messaggio di Amman e del messaggio interreligioso di Amman, possiamo dire che queste nobili iniziative hanno ottenuto buoni risultati nel favorire un’alleanza di civiltà tra il mondo Occidentale e quello musulmano, smentendo le predizioni di coloro che considerano inevitabili la violenza e il conflitto». Il Pontefice ricorda i passi fatti nel dialogo tra le civiltà. Una lunga strada che non va dimenticata: «Cari amici, nel seminario tenutosi a Roma lo scorso autunno presso il Foro cattolico musulmano – racconta – i partecipanti hanno esaminato il ruolo centrale svolto, nelle nostre rispettive tradizioni religiose, dal comandamento dell’amore. Spero vivamente che questa visita e in realtà tutte le iniziative programmate per promuovere buone relazioni tra cristiani e musulmani, possano aiutarci a crescere nell’amore verso Dio Onnipotente e Misericordioso, come anche nel fraterno amore vicendevole».

E il sovrano sembra accogliere l’invito del Pontefice: «In Giordania musulmani e cristiani sono cittadini uguali di fronte alla legge – annota Abdallah – e tutti contribuiscono al futuro del Paese. La fede è al centro della nostra quotidianità e la nostra eredità religiosa ha per noi un valore sacro. Seguendo la nobile tradizione della famiglia hashemita, considero un dovere personale preservare i nostri luoghi sacri e accogliere i fedeli. La mia speranza è che assieme possiamo diffondere il dialogo che abbiamo avviato, un dialogo che accetta le nostre singole identità religiose, un dialogo che non teme la luce della verità, un dialogo che, giustamente, celebra i nostri valori, i nostri legami comuni e profondi».

Come il sovrano, sembra aperta a un sincero dialogo anche la gente comune: negozianti e tassisti musulmani sanno che il Papa sta per arrivare e condividono un atteggiamento di simpatia. La visita del Papa significa, in ogni caso per questa nazione araba, avere gli occhi del mondo addosso. Lo sa bene l’ente di turismo locale. Nonostante la crisi internazionale, il turismo qui è in crescita. Il Monte Nebo, luogo da cui Mosé si affacciò per contemplare la Terra Santa, affidato alle cure dei francescani, nel corso del 2008 ha contato almeno 280 mila visitatori, per lo più europei. Con un incremento dell’86 per cento rispetto al 2007. Papa Benedetto lo visiterà in questi giorni e la speranza di molti è che questo rilanci ulteriormente il turismo. Anche per questo, i 1.400 giornalisti accreditati per la visita papale oltre ai quotidiani comunicati stampa della Santa Sede ricevono in questi giorni dal ministero del Turismo la generosa proposta di visite ai siti archeologici e alle bellezze esotiche del Mar Rosso.

Ma è un Paese concreto, e non solo da cartolina, quello che accoglie il Pontefice. La Giordania non può contare sulle preziose risorse naturali di gas e petrolio dei Paesi arabi vicini e il governo deve fare i conti con una crisi economica importante, aggravata da mesi di siccità invernale che hanno danneggiato la stagione agricola della valle del Giordano. E Amman continua ad essere una valvola di sfogo per i conflitti dei Paesi vicini: circa metà dei residenti giordani sono di origine palestinese, migrati qui dopo le guerre del 1948 e del 1967 con Israele. E l’invasione americana dell’Iraq ha recentemente portato in Giordania mezzo milione di profughi. «La situazione dei rifugiati iracheni è tragica – spiega Hania Bsharat, responsabile del Centro per migranti della Caritas di Amman -. Sono centinaia di migliaia, vivono nei quartieri più poveri di Amman anche se ultimamente diversi si spostano in altre città giordane, dove sperano in un costo della vita più basso. Arrivano in Giordania e fanno richiesta di status di rifugiati. Nel frattempo, però, non possono lavorare, perché il governo giordano non lo permette. Così, chi ha la possibilità di ricevere soldi dall’estero, vive senza fare nulla. Gli altri lavorano illegalmente con il pericolo di essere scoperti, arrestati e rimandati in Iraq. Pochi, per questo si arrischiano a lavorare. Soprattutto per i giovani uomini che in Iraq erano professori, ingegneri, avevano un ruolo e un lavoro, questa inattività è distruttiva. Molti di loro a casa avevano una posizione e adesso qui non sono nessuno e vivono solo grazie ad aiuti. Cosa difficile da accettare: tra gli iracheni anche per questo registriamo molte malattie legate alla pressione del sangue, al cuore, e alla depressione».

Un’altra emergenza della società giordana, poi, è quella dell’emigrazione. Sono circa 70 mila, di cui 40 mila con documenti regolari, le donne immigrate che lavorano in Giordania nelle famiglie come badanti o domestiche; vengono soprattutto da Indonesia, Sri Lanka e Filippine e, in buona parte, sono cristiane. Secondo una recente denuncia di Amnesty International molte di loro sono maltrattate e i loro diritti sono negati, problema condiviso con molti Paesi arabi. Suor Tushari Fernando è una religiosa dello Sri Lanka che lavora per il Centro migranti della Caritas di Amman: «Molte donne sono costrette a vivere in ambienti insalubri, senza privacy e diverse vengono molestate in casa – spiega suor Tushari -. Qui in Giordania tutto è differente rispetto ai loro Paesi d’origine. In Sri Lanka, ad esempio, è proibito per una ragazza tagliarsi i capelli; la prima cosa che fa qui una padrona è di tagliare i capelli della sua domestica, per motivi di igiene. Le ragazze lo percepiscono come una violenza molto grande. Spesso i documenti vengono sottratti dai datori di lavoro, la corrispondenza sequestrata e i pagamenti degli stipendi non arrivano puntuali». «Il 90 per cento dei lavoratori che vengono a chiedere aiuto al nostro centro sono senza documenti – spiega Sameera Akasheh, operatrice sociale della Caritas -: noi cerchiamo di offrire assistenza medica, cibo, consulenze legali e diciamo ai migranti quali sono i loro diritti, cosa di cui spesso non sono consapevoli».

La Giordania, con la sua calda accoglienza e i suoi problemi, spalanca le porte al Pontefice. E soprattutto i cristiani, dalla sua visita si sentono rafforzati.

Una mattina faccio colazione in una bottega musulmana. Un signore al tavolo vicino mi invita a sedere con lui. Si chiama Adel, è un giardiniere. Quando capisce che sono italiano mi fa vedere un tatuaggio che ha sul polso, una piccola croce. È egiziano copto, mi dice, ma è felice che il Papa venga in Giordania. E per farmi capire in cosa crede si fa il segno della croce.

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