Se in moschea Pietro è benvenuto
Un Papa entra in una moschea accolto come successore di Pietro. E da quella moschea predica che cristiani e musulmani sono investiti della stessa missione di verità. È stata storica la visita di Benedetto XVI, sabato 9 maggio, alla moschea reale hashemita al-Hussain bin-Talal di Amman. E si può dire che, dopo questo incontro, cristiani e musulmani siano più vicini.
La moschea hashemita di Amman è un imponente tempio moderno, in posizione elevata, poco fuori la città: 60 mila metri quadri di marmi e sale, voluti nel 2003 dal re Abdallah II per onorare la memoria del padre Hussein. Un tempio nuovo, per un regno ancora giovane. Così diverso dalle antiche moschee che hanno visto in anni recenti l’ingresso di un capo della Chiesa: quella Omayyade di Damasco, visitata nel 2001 da Giovanni Paolo II; e la Moschea blu di Istanbul, visitata nel 2006 dallo stesso Papa Benedetto.
Ma proprio in una nazione nuova, forse, sono possibili discorsi nuovi e finalmente utili, anche nell’ambito dei rapporti interreligiosi. Infatti è proprio da Amman che, nel 2007, un gruppo di studiosi e intellettuali musulmani manda al Papa e ai capi della cristianità una lettera dal titolo Una parola comune tra noi e voi, riconoscendo che quella parola alla base delle due grandi religioni è l’«amore», verso Dio e tra i fratelli. Così il Papa, nel corso di questo suo pellegrinaggio, si reca nella moschea di Amman per cogliere i frutti del dialogo e per fare un passo ancora, nella direzione della verità.
Ad accogliere il Pontefice è il principe Ghazi bin-Muhammad bin-Talal, un importante membro della famiglia reale. E le sue parole – testimonia dopo la cerimonia padre Federico Lombardi, portavoce del Papa – colpiscono nel profondo Benedetto XVI. In particolare quando il principe Ghazi enuncia i motivi per cui il Pontefice è accolto in questa moschea; e il primo di questi è perché «Sua Santità è il Capo Spirituale, Supremo Pontefice e successore di san Pietro per un miliardo e cento milioni di cattolici, che vivono vicini ai musulmani ovunque nel mondo; cattolici che salutiamo, accogliendo il Pontefice». Ma sono molte, nel discorso del principe Ghazi, le parole di amicizia: «Nel 2000, durante la visita di papa Giovanni Paolo II – racconta il principe – mi occupavo delle tribù nomadi che vivono in Giordania. Qualche nomade diceva che il Papa gli piaceva. Qualcuno chiese perché, visto che il Papa era cristiano e loro invece musulmani. E loro sorridendo dissero: "Perché ci ha visitato!". Papa Giovanni Paolo II – come lei – avrebbe potuto facilmente andare in Israele e Palestina senza venire in Giordania. Invece ha deciso d’iniziare il suo pellegrinaggio da noi, e questo lo apprezziamo». Ancora Ghazi racconta al Papa l’antica presenza dei cristiani in Giordania e la loro lealtà di sudditi: «I cristiani vivono oggi in Giordania come hanno fatto negli ultimi duemila anni, in pace e armonia e con buona volontà e relazioni di genuina fratellanza verso i loro vicini musulmani (…). La Giordania apprezza il fatto che i cristiani fossero presenti qui 600 anni prima dei musulmani. E forse la comunità cristiana della Giordania è la più antica al mondo. (…) I cristiani giordani non solo hanno sempre difeso la Giordania, ma hanno anche instancabilmente e patriotticamente contribuito ad edificarla giocando ruoli di guida in molti campi».
Benedetto XVI, prendendo la parola di fronte ai capi religiosi musulmani, al corpo diplomatico e ai rettori delle università giordane, lancia una vera e propria sfida: «Non possiamo non essere preoccupati per il fatto che oggi, con insistenza crescente, alcuni ritengono che la religione fallisca nella sua pretesa di essere, per sua natura, costruttrice di unità e di armonia, un’espressione di comunione tra persone e con Dio – ha osservato il Pontefice -. (…) Musulmani e cristiani, proprio a causa del peso della nostra storia comune così spesso segnata da incomprensioni, devono oggi impegnarsi per essere individuati e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell’Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli, coerenti nel dare testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono, sempre memori della comune origine e dignità di ogni persona umana, che resta al vertice del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia». Una sfida di testimonianza ma, soprattutto, un compito comune nuovo, per le due grandi religioni, sotteso tra fede e ragione: «Distinti amici – ha continuato Benedetto XVI -, oggi desidero far menzione di un compito che ho indicato in diverse occasioni e che credo fermamente che cristiani e musulmani possano assumersi, in particolare attraverso il loro contributo all’insegnamento e alla ricerca scientifica, come pure al servizio alla società. Tale compito costituisce la sfida a coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana. (…) In realtà, quando la ragione umana umilmente consente ad essere purificata dalla fede non è per nulla indebolita; anzi, è rafforzata nel resistere alla presunzione di andare oltre i propri limiti. (…) Pertanto, l’adesione genuina alla religione – lungi dal restringere le nostre menti – amplia gli orizzonti della comprensione umana. Ciò protegge la società civile dagli eccessi di un ego ingovernabile, che tende ad assolutizzare il finito e ad eclissare l’infinito; fa sì che la libertà sia esercitata in sinergia con la verità, ed arricchisce la cultura con la conoscenza di ciò che riguarda tutto ciò che è vero, buono e bello. Una simile comprensione della ragione – ha continuato il Papa – che spinge continuamente la mente umana oltre se stessa nella ricerca dell’Assoluto, pone una sfida: contiene un senso sia di speranza, sia di prudenza. Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto. Siamo impegnati ad oltrepassare i nostri interessi particolari e ad incoraggiare gli altri, particolarmente gli amministratori e i leader sociali a fare lo stesso, al fine di assaporare la soddisfazione profonda di servire il bene comune, anche a spese personali. Ci viene ricordato che proprio perché è la nostra dignità umana che dà origine ai diritti umani universali, essi valgono ugualmente per ogni uomo e donna, senza distinzione di gruppi religiosi, sociali o etnici ai quali appartengono. Sotto tale aspetto, dobbiamo notare – ha infine osservato il Pontefice, riferendosi alle discriminazioni che ancora vengono attuate a causa della fede in molti Paesi del mondo e anche purtroppo nel mondo arabo – che il diritto di libertà religiosa va oltre la questione del culto ed include il diritto, specie per le minoranze, di equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile».