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I punti fermi di Bibi

25/06/2009  |  Milano
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I punti fermi di Bibi
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante il discorso del 14 giugno scorso all'università di Bar Ilan.

Ultimamente il premier israeliano Benjamin (Bibi) Netanyahu è tornato più volte sui contenuti del discorso da lui pronunciato il 14 giugno scorso all'università di Bar Ilan per delineare le direttrici della politica del suo governo riguardo ai rapporti con i palestinesi e i Paesi arabi del Medio Oriente.


(g.s.) – Nei giorni scorsi il primo ministro israeliano Benjamin (Bibi) Netanyahu è tornato più volte sui contenuti del discorso da lui pronunciato il 14 giugno scorso all’università di Bar Ilan per delineare le direttrici della politica del suo governo riguardo ai rapporti con i palestinesi e i Paesi arabi del Medio Oriente.

In un’intervista rilasciata all’inviato Rai Claudio Pagliara, alla vigilia del suo arrivo a Roma il 23 giugno, Netanyahu ha ribadito che il regime iraniano degli ayatollah rimane, al momento, la sua preoccupazione principale, soprattutto se Teheran dovesse riuscire a dotarsi, nell’arco di breve tempo, di armi atomiche. Il primo ministro è stato evasivo, quando il giornalista gli ha chiesto se Israele si prepari a un blitz contro gli impianti nucleari iraniani, come fece nel 1981 quando bombardò con l’aviazione quelli iracheni. Ha preferito commentare le cronache degli ultimi giorni da Teheran: «Credo che chiunque sia per la libertà e i diritti umani oggi sostenga gli sforzi del popolo iraniano nella riconquista della sua libertà. (…) Questo è un regime che opprime il suo popolo, che minaccia tutti negando l’Olocausto e invitando a distruggere Israele, sponsorizzando il terrorismo in tutto il mondo e tentando di dotarsi di armamenti nucleari, che potrebbero poi consegnare ai terroristi in varie parti del pianeta. Credo che ora la vera natura di questo regime sia stata smascherata».

Tema, quello iraniano, che ha aperto e chiuso l’intervista. Nel finale, il premier israeliano ha legato alla strategia politica di Teheran anche le sorti di Gaza: «A Gaza abbiamo un regime che agisce su mandato dell’Iran, un regime che opprime anzitutto la popolazione stessa di Gaza. Alla quale non viene data altra scelta, esattamente come al popolo iraniano. C’è una banda violenta di uomini armati, Hamas, che riceve tutte le sue armi dal regime iraniano». Israele, dice Netanyahu, ha sopportato a lungo i lanci di missili da Gaza verso il suo territorio. Dopo 7.200 missili ha deciso di reagire: «Così – osserva il premier – la sofferenza di Gaza è il risultato diretto delle scelte di Hamas, terroristi che agiscono su mandato iraniano. Noi cerchiamo di rendere la vita meno difficile per la popolazione in nome di una preoccupazione umanitaria, cercando però, allo stesso tempo, di impedire ad Hamas di ricevere denaro e armi che potrebbe usare per lanciare altri razzi contro di noi. Stiamo cercando un punto di equilibrio per giungere ad aiutare la popolazione senza aiutare il regime terrorista che malauguratamente la governa».

Proprio perché gli israeliani non escludono la possibilità che Hamas possa guadagnare consensi anche in Cisgiordania ottenendo dagli elettori la legittimazione a governare tutti i Territori palestinesi Netanyahu impone due condizioni per accettare la nascita di uno Stato palestinese: che riconosca Israele come Stato ebraico e che sia completamente demilitarizzato, così che «uno Stato palestinese non possa essere rampa di lancio per migliaia di razzi e missili». Solo l’accettazione di queste due condizioni è, per Netanyahu, la «formula vincente per la pace». In realtà ci sono altri punti controversi: su Gerusalemme il governo israeliano che essa è destinata a rimanere l’indivisa capitale di Israele, il quale, dice il primo ministro, da quando ne ha assunto il controllo nel 1967 ha sempre assicurato libero accesso per tutti ai Luoghi Santi e libertà di culto (in realtà oggi molti palestinesi dei Territori, sottoposti a restrizioni negli spostamenti, non possono raggiungere i santuari della Città Santa se non molto eccezionalmente, in occasione delle principali festività religiose). Quanto agli insediamenti israeliani nei Territori, Netanyahu dichiara «che noi non costruiremo nuovi insediamenti e che non esproprieremo altre terre per espandere quelli esistenti. Tutto ciò che chiediamo è che, fino a che sarà raggiungo un accordo di pace finale, alle persone che vi abitano sia permesso di condurre una vita normale». E il premier israeliano rifiuta la prospettiva di chi vede negli insediamente uno dei maggiori ostacoli alla pace: «Per quasi 50 anni – dice – prima che ci fosse un solo soldato israeliano in Giudea e Samaria (due regioni dei Territori palestinesi di Cisgiordania secondo la toponomastica ebraica – ndr) quando Gaza e Cisgiordania erano in mani arabe, abbiamo registrato per decenni attacchi agli ebrei. E la ragione di quegli attacchi non era il nostro controllo dei territori, che infatti non esercitavamo, ma il persistente rifiuto di riconoscere Israele, quali che fossero i suoi confini».

Netanyahu ha voluto riepilogare in breve il suo discorso del 14 giugno anche ai colleghi di governo, durante la riunione settimanale di domenica 21 giugno. «L’importanza di quel discorso – nel quale il premier israliano si è detto pronto a negoziare da subito con i principali leader arabi – sta nell’aver definito il consenso nazionale di Israele per il raggiungimento di un accordo di pace. I punti che ho presentato non sono condizioni per l’avvio di negoziati. (…) Al contrario noi insistiamo perché non vi siano condizioni previe né dall’una né dall’altra parte. Ho espresso, tuttavia, quelle che sono posizioni fondamentali per il futuro di Israele, per l’esistenza di una pace genuina e per il mantenimento della sicurezza, perché non c’è pace senza sicurezza».

I due punti essenziali sono «anzitutto che stiamo parlando di due Stati per due popoli, uno dei quali è il popolo ebraico, che ha diritto a un proprio Stato nazionale. Naturalmente vi sono anche non ebrei in Israele, che godono pienamente dei diritti civili, ma lo Stato è lo Stato del popolo ebraico, con simboli, lingua e festività di questo popolo, e con la facoltà per ogni ebreo di immigrarvi e diventarne cittadino. Cosa che non si applica al cosiddetto “diritto di ritorno” (dei palestinesi profughi dal 1948 – ndr), il quale non verrà messo in atto nello Stato di Israele». Il secondo punto è quello della demilitarizzazione, la quale, per Netanyahu non «equivale a sminuire l’autodeterminazione palestinese». «Non capisco perché – ha detto -, ai fini dell’autodeterminazione i palestinesi abbiano bisogno di misili Kassam o Grad. Posso invece comprendere che abbiano bisogno di forze di polizia e servizi di sicurezza forti, cosa che noi incoraggiamo. In ogni caso, sulla base della nostra esperienza dopo quanto è accaduto nei luoghi che abbiamo già evacuato, più di ogni altro Stato al mondo, abbiamo il diritto di chiedere che quello palestinese sia uno Stato demilitarizzato». Netta in proposito la richiesta di Israele e del suo governo alla comunità internazionale perché si impegni a garantire con misure concrete che lo Stato palestinese che sorgerà sia e rimanga demilitarizzato.

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