Una chiave di violino, in Terra Santa, per aprire la porta del dialogo tra ebrei ed arabi. Hanno provato ad usarla di recente (tra mille polemiche) due artiste israeliane: Achinoam Nini, cantante ebrea meglio conosciuta, anche in Italia, con il nome di Noa; e Mira Anvar Awad, brillante e giovane artista araba di origini cristiane. Noa e Mira in primavera hanno accettato di rappresentare Israele, cantando insieme all’Eurovision forse il più seguito concorso musicale del Vecchio Continente: un’ebrea e un’araba, entrambe israeliane, sullo stesso palco a proporre una canzone -in ebraico, arabo e inglese- dal titolo There must be another way («Ci deve essere un’altra strada»): un vibrante appello al rispetto dell’umanità che risiede negli altri. Questa coppia inedita di artiste ha suscitato interesse, riuscendo – tra l’altro – anche a raggiungere la finale della competizione. Delle due Mira è la meno famosa anche se, forse, quella con il profilo più interessante: nata in Galilea, nel villaggio di Rama, da padre palestinese e madre bulgara, ha studiato teatro e musica in scuole prestigiose. Parla correntemente ebraico, arabo, inglese e bulgaro, pubblica dischi e fa tourneé. È insomma un’esponente di quell’élite intellettuale arabo-israeliana, orgogliosa delle origini palestinesi e al tempo stesso a proprio agio con il passaporto israeliano.
Accuse stonate. Per la scelta di partecipare al festival Eurovision assieme a Noa, Mira però ha subito pesanti critiche in patria, anche perché la kermesse ha avuto luogo solo poche settimane dopo le sanguinose operazioni di Gaza del dicembre-gennaio scorsi: «Forse pensi che rappresentare Israele sia importante per dimostrare che la società israeliana è composta di arabi come da ebrei. Ma questo è un enorme malinteso – ha affermato in una lettera aperta il Pacbi (Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e intellettuale di Israele), associazione di artisti dei Territori palestinesi che si oppongono all’occupazione israeliana – : fino a quando i palestinesi che vivono con gli israeliani non avranno pieni diritti e soffriranno sistematiche discriminazioni e violazioni dei loro diritti umani, Israele non può presentarsi come una sana società multiculturale; e fino a quando Israele continuerà ad occupare terre palestinesi e a non conformarsi al diritto internazionale, dovrà essere boicottato da tutti gli artisti». Accuse pesanti, a cui però Mira contrappone un punto di vista diverso, aperto alla speranza.
«Sono orgogliosa di essere palestinese e sono una cittadina israeliana; e la mia non è una posizione in sui sia semplice stare – afferma con forza la Awad, quando la raggiungiamo di ritorno da una tourneé di concerti all’estero – soprattutto perché la minoranza palestinese in Israele sta soffrendo ed è ancora una categoria di cittadini di seconda classe. Ma penso che sia importante mantenere sempre aperta la porta al dialogo e dare spazio alle voci moderate, anche in tempi di guerra. E in particolare oggi, alla luce delle ultime elezioni israeliane in cui la destra ha preso forza, io voglio affermare questo: sono qui in Israele per rimanerci, questa è anche la mia casa, io appartengo a questo posto. Dobbiamo trovare la strada per vivere tutti quanti nel mutuo rispetto e con gli stessi diritti».
Nei panni degli altri. Mira è un’artista a tutto tondo. A Tel Aviv collabora, come attrice, anche con il più grande teatro israeliano, il Cameri Theater. Sul suo prestigioso palco, nelle passate stagioni ha interpretato, lei araba, il ruolo di una militare israeliana in uno spettacolo sul conflitto arabo-israeliano. Mettersi nei panni degli altri e cercare di capirne il punto di vista sembra essere per Mira una delle chiavi per fondare la possibile convivenza: «Nella nostra regione ogni evento contiene un dualismo – spiega l’attrice -. Ad esempio: per uno dei due popoli la costituzione dello Stato di Israele è stata una benedizione; ma per l’altro ha significato la perdita delle terre e delle case; così, a partire dall’evento della nascita di Israele, ogni accadimento è raccontato in due modi opposti. Io credo che a un certo punto i due popoli dovrebbero riconoscere che ci possono essere modi diversi di raccontare i fatti storici e che, pur non essendo d’accordo su molte cose, non possiamo fare a meno di porre il valore della vita in cima alla lista delle nostre priorità. Credo davvero che la vita umana sia sacra, mentre invece non penso che lo sia la terra».
La Awad proviene da una famiglia di origini cristiane. «In realtà sono stata educata in modo laico e sono cresciuta nel rispetto di tutte le religioni e di tutte le fedi – precisa -. Oggi ho una fede molto individuale e forse non potrei dire di essere cristiana. Però spero che l’influenza del Papa nel suo ultimo viaggio in Terra Santa serva a far nascere compassione tra i popoli, al di là della loro nazionalità e della loro religione».