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Il mio «baba» innamorato di Dio

padre Gwenolé Jeusset ofm
30 settembre 2009
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Tra le molte cassette che si accumulano, ho riascoltato un’intervista che avevo fatto ad Abidjan nel 1974, al suo ritorno dalla Mecca, a colui che divenne il mio baba, El Hadj Boubacar Sakho (nella cultura africana, il termine baba equivale a «babbo» in italiano, qui possiamo intenderlo come «anziano» o «guida» – ndr). Un’amica comune ha fatto avere a sua moglie e ai figli questa voce dall’oltretomba. Non avrebbero mai pensato di poter riascoltare la voce del «Vecchio» deceduto nel 1997, e ne sono commossi.

Prima della sua partenza ero andato a salutarlo e gli avevo consegnato una lettera da leggere in aereo, nella quale gli dicevo che l’ultimo giorno del hajj (il pellegrinaggio alla Mecca – ndr) gli sarei stato vicino nella preghiera, mentre assieme alle altre centinaia di migliaia di fedeli, sulla collina dominante la Kaaba si sarebbe raccolto in meditazione al cospetto del nostro Dio.

Al suo ritorno, sentii che aveva fatto un’esperienza di apertura straordinaria, andando al di là della sua stessa religione. Nell’intervista disse che laggiù aveva promesso ad Allah che avrebbe dedicato gli ultimi anni della sua vita alla riconciliazione tra cristiani e musulmani.

Fu allora che cominciammo entrambi a incontrare insieme cristiani e musulmani. Un viaggio all’interno del Paese ci diede l’occasione di conoscerci meglio e di stupire più di una persona, che osservava l’insolita immagine di due uomini religiosi, uno con addosso il boubou (abito lungo) tipicamente musulmano, l’altro nel saio francescano. Il nostro duo itinerante parlava da sé e preparava i cuori alle parole di amicizia che Dio si aspettava dai suoi figli divisi.

Dal pellegrinaggio il baba aveva portato a casa due rosari islamici, comprati nella sua città santa, uno per mia madre e l’altro per me. Il suo amore senza frontiere mi apparve meraviglioso quando mi disse: «Per mia sorella lo trasformerai in un rosario cristiano. Ci aggiungerai una croce».

Una volta fui invitato al matrimonio tradizionale di sua nipote con un giovane medico cristiano. Arrivai con lo sposo, ma davanti alle due famiglie che stavano una di fronte all’altra, avevo dei dubbi sul dove mettermi… dalla parte del gruppo cristiano o di quello musulmano?

Avendo chiesto consiglio all’amico imam che stava per celebrare lo scambio dei voti tradizionali, questi rimase quasi sbalordito: «Ma dal nostro lato, ovviamente. Appartieni alla nostra famiglia!». Cominciai a pensare che noi, clero e responsabili delle diverse religioni, dovremmo coltivare nella maggioranza silenziosa dei credenti questa volontà di coabitazione pacifica, nutrirla certamente con la dottrina ma soprattutto con la nostra esperienza, e non prendere subito per santa prudenza teologica la nostra paura di sincretismo tra i fedeli, considerati degli analfabeti della fede.

Alcuni anni dopo, un amico gesuita mi propose di scrivere un piccolo libro su baba. In quel libro ho raccontato anche quello che per me è stato l’evento all’origine della mia vita al confine tra cristianesimo e islam.

Arrivo nel cortile del mio «Vecchio». Non ci sono visitatori, solo la moglie e due o tre bambini. Mi dicono: «Baba sta pregando nella sua stanza». Propongo di ripassare più tardi, ma non se ne parla. Al figlio spirituale spetta un posto al suo fianco. Lusingato per questo legame che mi viene riconosciuto, entro e vedo baba sul suo tappeto, che sta sgranando un rosario. Mi fa segno di sedermi. Tiro fuori il mio rosario cristiano e mi unisco a lui nella meditazione. Le nostre preghiere salgono a Dio come fossero una sola. Che istanti di eternità! Dopo un po’, se tanto o poco non saprei dirlo, il mio padre spirituale si rialza e, chiamandomi con il nome musulmano che lui stesso mi ha dato, mi dice: «Yaya, sono drogato d’amore per Dio!».

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