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Il mio «vecchio padre» vicino a san Francesco

padre Gwenolé Jeusset ofm
30 novembre 2009
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Lasciare la Costa d’Avorio prima della morte di El Hadj Sakho non era nei miei programmi. Ma Dio decise diversamente. In occasione degli 800 anni dalla nascita di san Francesco, ad Assisi fu organizzato un convegno sui rapporti tra l’islam e l’Ordine francescano. Verso la fine emerse la proposta di creare una commissione per le relazioni con i musulmani. Mi convinsero ad assumere la direzione di questa struttura, così snella, si pensava, da consentirmi di non lasciare l’Africa.

Invece la visita ai confratelli nei Paesi islamici in cui ci eravamo insediati e l’animazione della commissione mi coinvolsero sempre di più. Nel 1986 annunciai a Baba la mia partenza definitiva per l’anno seguente. La sua fu la reazione di un uomo che si abbandona allo Spirito: «Avrei voluto tenerti vicino fino alla mia morte, ma dato che ti chiedono di portare altrove la parola di riconciliazione… Cedo il passo».

Tre anni dopo, la commissione si riunì ad Abidjan: fu una buona occasione per rivedersi. Il nostro caro padre aveva allora 87 anni, ma era lì, felice e fiero, vicino al suo «figlio», in una sala della moschea dove eravamo stati ricevuti dal gruppo islamo-cristiano fondato con lui quasi vent’anni prima.

Visse altri sette anni. Nel 1995 mi giunsero alcune parole scritte dietro dettatura e contrassegnate dalla sua fragile firma: «Dite a Yaya di prepararsi a venire a rendermi l’omaggio dei morti». Ancora due anni e Dio lo chiamò a sé.

Dieci anni dopo, invitato all’ultimo momento al giubileo della nostra fondazione, ottenni un visto e atterrai nella capitale ivoriana. Prima e dopo i festeggiamenti feci visita alla «mia» famiglia musulmana. Che gioia essere accolto da bambini fattisi ormai adulti, in qualità di membro della famiglia, in parte portatore della memoria del Vecchio.

Non vedevo l’ora di esaudire la richiesta di Baba. La tomba mi sorprese. Nessuna targa, nessuna indicazione, il completo anonimato. Il suo ultimo figlio mi spiegò che i musulmani più pii, in questo modo, vogliono evitare qualsiasi rischio di «culto». Rimasi lì a lungo a chiedere al mio padre spirituale di aiutarmi nel lavoro che avevamo cominciato insieme e che oggi è proseguito fino in Turchia. Qualche metro più in là la tomba di Amadou Hampate Ba mi sorprese ancora di più, io che avevo conosciuto quell’uomo per la sua fama di scrittore. Qualche passo ancora e si entrava nel piccolo spazio dei missionari. Le targhe indicavano molte figure conosciute, ma quella che mi colpì di più fu quella di fra Jean-Paul, francescano assassinato nella nostra residenza nei pressi della baraccopoli una sera dell’ottobre 1970. Feci poi visita al Grande Imam della Costa d’Avorio. Era stato anche lui membro del nostro gruppo, e mai avrebbe pensato di accedere alla suprema carica della comunità islamica. Aveva sostituito Tijane Bâ, l’uomo che aveva rappresentato i musulmani d’Africa Nera il 27 ottobre 1986 ad Assisi, della cui scomparsa ero stato informato al mio arrivo. Questi era sepolto nel cortile di un’importante moschea che aveva guidato. Un mausoleo, voluto dai suoi discepoli, spiccava tra le tombe di quei grandi uomini; mi assicurarono che, se Bâ lo avesse saputo, non avrebbe certo approvato. Gli chiesi di dire a tutti gli amici cristiani e musulmani che mi avevano preceduto, e che lassù formavano ormai un gruppo non più islamo-cristiano ma sovrareligioso, di aiutarci a portare avanti un’opera di riconciliazione che sembrava arrancare…

Mi immagino Baba non molto lontano da San Francesco. Un giorno mi aveva detto: «Francesco ha fatto la sua vita, poi in un attimo ha voltato le spalle a quella vita, abbandonando tutti i beni terreni per vivere in povertà. Se sei francescano, se sei cristiano, lo devi imitare. Mai una parola malvagia è uscita dalla sua bocca. Io sono musulmano, cerco un po’ di imitarlo».

(traduzione di Roberto Orlandi)

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