A distanza di qualche mese dal mio arrivo a Gerusalemme, iniziavo ad accorgermi che il senso di estraneità che la città santa mi suscitava non accennava a diminuire. Anzi! Più passavano i giorni e più una sorta di disagio cresceva, un sentirmi quasi schiacciata dall’immensità, dalla complessità, dall’alterità di questo luogo, dove c’é di tutto e dove tutto convive con il proprio contrario. Dove è così difficile tracciare confini, o leggere gli eventi secondo qualche prestabilito schema mentale.
Ed è così che, approfittando della possibilità che ci siamo date per questi primi tempi di andare a vedere, a toccare e a conoscere la Terra che abitiamo, una bella mattina sono partita sola, con acqua, cartina e Bibbia, per cercare di scoprire il mistero di Gerusalemme. Per capire il senso del mio vivere qui.
Sono uscita senza un programma preciso, in ascolto e in attesa di quanto sarebbe potuto accadere, con l’unico proposito di dedicare la mattina alla città vecchia, e il pomeriggio alla nuova.
Ho camminato, camminato, camminato. Ho ascoltato, guardato, sentito, respirato. La mattina per i suk, in un caos di voci, colori e odori, dove tu passi tra le migliaia di pellegrini che quel giorno visitano i Luoghi Santi della città vecchia; e la fatica più grande è convincere i negozianti che non vuoi comprare nulla. E il pomeriggio per la città nuova, dove il mio saio di clarissa, tra le mille fogge di abiti della gente di qui, non suscita nemmeno curiosità, dove tutto è scritto in due lingue che ancor più mi fanno sentire un’estranea, dove c’è tutto, ma senti che non è per te. Iniziavo certo a riconoscere le case e le vie, a capire dove va Jaffa Street e dove si trova il mercato Ben Yehuda, quale autobus passa per via King George e dove stanno l’Istituto Biblico o il quartiere ultraortodosso. Ma non diminuiva il senso di smarrimento. Ho continuato a camminare, ma non è successo proprio niente: nessun incontro, nessun luogo e nessun modo in cui sentirmi accolta, a casa.
Solo tornando in monastero, verso sera, ho capito che il mio pellegrinaggio non era stato vano, ma, se volevo, poteva darmi una chiave preziosa: Gerusalemme non mi appartiene, e non ci posso stare dicendo: «Questa è casa mia!». Posso conoscerla e amarla, ma non possederla. Perché Gerusalemme è di tutti e non è di nessuno in particolare, e diventa tua solo se accetti di viverci come pellegrino e forestiero. E questo scarto, questo sentirla sempre un po’ lontana, è forse proprio il segreto che cercavo, è ciò che ti permette di non sederti, ma di continuare a cercare, a camminare, a sostenere la fatica di andare oltre, di abitarci come una povera.
E mi sono detta che l’unica vera cittadinanza sicura, che mi è data quaggiù, è quella della Gerusalemme… di lassù, dove già fin d’ora non siamo più pellegrini o forestieri, ma concittadini degli angeli e familiari di Dio.
E ancora, sognavo camminando, che bello sarebbe se tutti qui riuscissero a fare il salto di dire: «Gerusalemme non è mia…». Se tutti potessero sentirsi un po’ pellegrini in casa propria: ci sarebbe posto per tutti!
E infine, rientrata in monastero, con il passare dei giorni, continuando a camminare, mi sono chiesta: ma questo segreto, quello di Gerusalemme, non è forse anche il segreto della vita? Nella vita non ci si può stare forse solo così, sapendo che tutto è nostro, ma solo se noi stessi apparteniamo ad un Altro, se accettiamo di condividere ciò che siamo e ciò che abbiamo?
(L’autrice è claustrale nel monastero di Santa Chiara a Gerusalemme)