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Montreal Palestina

Manuela Corazzi
20 gennaio 2010
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Montreal Palestina
Mazen e Najat El-Khairy nella loro casa a Montreal.

In Canada vive una nutrita comunità di palestinesi fuggiti dalla loro terra dopo la proclamazione dello Stato di Israele. Parecchi sono oggi imprenditori, artisti, giornalisti di successo.


Ogni anno, alla vigilia del 14 maggio, Mazen e Najat El-Khairy radunano figli e nipoti nella bella casa affacciata sul fiume San Lorenzo, dalla quale si gode una vista mozzafiato sui grattacieli di Montreal, Canada. E mentre la comunità ebraica si appresta a festeggiare l’anniversario della fondazione dello Stato d’Israele nel quartiere fra Park Avenue e Laurier, il settantunenne imprenditore palestinese racconta che cosa accadde a Ramleh alla fine del giugno 1948: «Avevo quasi 10 anni, vivevamo con mio nonno e i miei zii in una villa ottomana, oggi casa di riposo per anziani israeliani. La guerra era iniziata da alcune settimane quando arrivò una brigata dell’Haganah (organizzazione paramilitare ebraica al tempo del Mandato britannico, il primo nucleo delle Forze armate israeliane – ndr), guidata da un capitano di 26 anni: il suo nome era Itzhak Rabin. Circondarono Ramleh. Mio nonno, che da anni era lo sheikh, il sindaco del villaggio, radunò l’intero clan, 40 persone, e disse: “Siamo stati sotto gli inglesi, ora staremo sotto gli ebrei. Non cambierà nulla”. Ma due giorni dopo, come Rabin stesso raccontò nelle sue memorie, David Ben Gurion in persona gli ordinò di dichiarare l’intera zona area militare, e di evacuare il villaggio. Non dimenticherò mai quella notte: in mezz’ora venimmo caricati su dei camion e portati in Transgiordania, con gli israeliani che sparavano in aria perché fuggissimo senza guardarci indietro. Eravamo partiti con un’unica valigia in cinque».

La memoria della Nakba, la Catastrofe, è tra i fondamenti della trasmissione dell’identità collettiva in quella che è una delle famiglie più influenti della comunità palestinese di Montreal. Nella ricca, aristocratica e colta città francofona hanno trovato rifugio circa 100 mila arabi su un milione e 800 mila abitanti: quasi un terzo sono libanesi, molti dei quali titolari di ristoranti come il rinomato Boustan o come Chez Amin; seguono siriani, egiziani e iracheni, impiegati nei trasporti e nei servizi. Fino alla minoranza palestinese, alcune migliaia, tra i quali spiccano l’imprenditore Mazen El-Khairy, titolare di una nota azienda di carta e legname, la moglie Najat el-Tali El-Khairy, apprezzata ceramista e miniaturista, l’ex anchor-man della tivù saudita Sami Odeh e la figlia Rula, biologa e personalità di spicco della comunità cittadina.

Storie legate dai drammi dell’emigrazione coatta, dell’esilio e della negazione del diritto al ritorno. Ma confortate dal successo grazie a quello che si rivelò un asset strategico in mano alle famiglie arabe più illuminate della Palestina mandataria: «Sa qual è stata la più grande fortuna della mia vita? – sorride Mazen El Khairy  con un lampo nello sguardo azzurro -. Che mio padre fosse un uomo istruito, e non solo benestante». Fu grazie all’istruzione, racconta, che negli anni Cinquanta il padre si trasferì a Gaza come funzionario della Arab Bank, «quando la Striscia di Gaza era un giardino di aranci e limoni», ricorda con un velo di nostalgia. Fu grazie all’istruzione che sudò lacrime e sangue pur di offrire ai tre figli maschi le migliori opportunità di studio che all’epoca un giovane rifugiato palestinese potesse sperare: «Finita la scuola superiore, mi propose di andare a studiare in Inghilterra. E cinque anni dopo mi laureai in ingegneria civile».

Fu a metà degli anni Sessanta che incontrò per la prima volta in Egitto la bellissima cugina di primo grado, Najat El Taji El-Khairy «Sono nata in Egitto nell’estate del 1948, durante la fuga dalla Palestina messa a ferro e fuoco dalla proclamazione dello Stato di Israele», racconta versando del tè nelle tazze di ceramica armena questa signora, che a 61 anni continua ad emanare fascino ed eleganza. «Mia madre aveva lasciato il Paese al settimo mese, pensando che sarebbero rientrati in poche settimane. Non ha mai più rivisto la sua casa. Io stessa ho visitato per la prima volta la mia terra solo nel 1997, con un passaporto canadese e un visto turistico di un mese, in un viaggio che si è rivelato un’esperienza traumatica e lacerante», racconta commossa.

«Fin da quando ci siamo conosciuti, il ’48 è risultato un anno cruciale nella storia di entrambi», dice con un sorriso al marito. Dopo il matrimonio, nel 1969 la coppia si trasferì in Arabia Saudita, dove è poi rimasta 20 anni. «A Riyad mi sono laureata in Letteratura inglese e francese. Ma, mentre i nostri quattro figli crescevano, ci siamo resi conto che per le donne le possibilità di studio e lavoro erano davvero limitate. Quando le ragazze ebbero 14 e 16 anni le portai in collegio in Svizzera, mentre i due maschi finivano le elementari. E intanto cominciammo a preparare la partenza».

«L’intero Medio Oriente è instabile – aggiunge il marito – ed il rischio d’impresa è alto: cercavamo un luogo dove i nostri figli potessero avere un futuro e la famiglia potesse restare unita, prosperare, mettere radici e non perdere il senso di appartenenza alla nazione palestinese». Fu proprio con l’arrivo in Canada nel 1989 che, mentre le figlie frequentavano l’università e i ragazzi il liceo, Najat El Taji El-Khairy cominciò a realizzare splendidi manufatti in ceramica e ricami tratti dalla tradizione iconografica palestinese, oggi esposti in prestigiosi musei e gallerie d’arte nordamericani: «Volevo tenere viva la memoria e la trasmissione dell’artigianato palestinese, tanto nella pittura e nelle miniature quanto nei tessuti: dimostrare che questa tradizione esiste in forme autonome rispetto all’iconografia araba (che è prevalentemente calligrafica e geometrica), che affonda le sue radici nell’arte decorativa rurale della Palestina, e che essa esprime ancora oggi la dignità, l’attaccamento alla propria terra, la sete di libertà e di giustizia del popolo palestinese».

A Montreal conobbero un altro esule palestinese, arrivato in Canada dopo aver passato 25 anni in Arabia Saudita. «Provengo da una famiglia cristiana ortodossa di Zababdi, 15 chilometri a nord di Jenin. Sono nato nel 1934», racconta Sami Odeh nella quiete del suo villino nel sobborgo di St. Laurent. «Nel ’48 fummo cacciati dalle brigate dell’Haganah nello spazio di un mattino. Che altro è stato, se non pulizia etnica? Ci sono voluti sessant’anni, ma finalmente uno storico del calibro di Ilan Pappe l’ha documentato. La casa dei miei nonni a Zababdi, che non vedemmo mai più, è stata demolita. Quella della famiglia di mia madre a Gerusalemme oggi è sede del consolato turco. Andammo a Ramallah, dove rimanemmo sei mesi. Ma lì non c’erano scuole superiori, quindi ripiegammo a Bir Zeit. Da lì al campo profughi di Jifva, dove mio padre iniziò a insegnare nella scuola dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi – ndr)  Nel 1952 mi mandò a studiare in Egitto: la facoltà che potevamo permetterci, all’epoca, era Agraria, e così mi laureai anni dopo a Baghdad». Le vicissitudini dell’esilio non impedirono a Sami Odeh di realizzare il sogno di diventare giornalista: «Per un paio d’anni ho vissuto a Cipro, dove iniziai a lavorare per la Bbc. Da lì mi trasferii nel ’64 a Riyad, dove divenni il conduttore di un programma in prima serata di attualità e di scienza». Cristiano necessariamente in incognito nell’oltranzista regime wahabita, Sami Odeh ha vissuto per decenni sia l’impossibilità di far ritorno in patria sia l’insicurezza imposta ai cristiani nel Paese simbolo dell’intolleranza religiosa. «I miei colleghi sapevano che non ero musulmano – racconta – ma nessuno ha avuto nulla da dire per diversi anni. Più di una volta venni avvicinato da personalità saudite: “Perché non ti converti all’islam?”, mi dicevano. “Per un uomo nella tua posizione sai quante porte si aprirebbero, tu sei famoso, la famiglia reale ti stima…”. Ma ho sempre risposto: sto bene dove sto. Il cristianesimo è nato in Terra Santa, siamo noi cristiani palestinesi che l’abbiamo portato in tutto il mondo. E proprio io dovevo abiurare? No grazie. Del resto ero attento a quel che facevo: e nessuno si è mai lamentato del mio lavoro. Fino a quando qualcuno mi attaccò pubblicamente, chiedendo come potesse un cristiano condurre un programma della tivù pubblica. Il ministro della Cultura ovviamente non poté difendermi. Così diedi le dimissioni, e una settimana dopo ero il direttore delle relazioni esterne di una compagnia petrolifera».

Ma la decisione di emigrare venne anche per lui dall’oppressione e isolamento imposti alle donne in Arabia Saudita. «Il fatto è che sono padre di quattro figlie: il mio orgoglio e la mia preoccupazione, perché non c’era futuro per loro in Arabia Saudita. Non solo non avrebbero potuto lavorare, ma essendo cristiane non avrebbero neanche potuto iscriversi all’università. Così decidemmo di partire. Quando mi dimisi mi diedero del pazzo: rinunciare a quello stipendio e a quella posizione…? Ma debbo dire, dopo vent’anni, che è stato qui in Canada che abbiamo forgiato la nostra identità di famiglia, che ci siamo uniti ancora di più. Se fossi rimasto in Arabia Saudita, oggi sarei forse più ricco ma loro non avrebbero potuto né studiare né lavorare. E poi non avremmo goduto di quei diritti negati in tutto il Medio Oriente: la libertà d’espressione, il diritto di critica, il diritto di voto, la partecipazione politica. In Occidente – chiosa – è un’altra vita».

Gli sorride dall’altro lato del divano la sua «scommessa vinta»: la primogenita Rula, 40 anni, biologa e madre di due figli, è presidente del National Council on Canada-Arab Relations, un’organizzazione con diverse centinaia di membri in tutto il Paese. «La sua nascita è espressione della volontà degli arabi immigrati di una maggiore visibilità – spiega – e di un’informazione senza pregiudizi e senza stereotipi: perché il problema qui è che abbiamo uno dei governi più conservatori del mondo, e la maggior parte dei canadesi ha un’idea estremamente superficiale e parziale del mondo arabo e del conflitto in Medio Oriente».

Vista con gli occhi della diaspora, la soluzione dei due Stati appare ormai un’utopia: «Forget it», sospira Sami Odeh. «Siamo stati governati per anni da una classe di corrotti: è per questo che i palestinesi hanno voltato le spalle a Fatah e si sono rivolti ad Hamas. Il sogno dei due Stati è svanito. Oggi si può solo aspirare ad uno Stato democratico, Israele, con due popoli. E anche se non torneremo, non smetteremo mai di sostenere il diritto al ritorno. Un’ossessione? No, non è un’ossessione: è la nostra terra, la nostra storia, la nostra vita. Non possiamo dimenticare chi siamo. Finché vivremo non dimenticheremo mai di essere palestinesi».

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